Game of Thrones 4×05 – 4×06: la recensione
Giro di boa per la quarta stagione di Game of Thrones con First of His Name e The Laws of Gods and Men, quinto e sesto episodio che hanno come minimo comune denominatore una partenza un po’ in sordina, per poi regalare, in entrambi i casi, un crescendo di sviluppi davvero appassionanti.
First of His Name è uno dei tanti appellativi dei quali, d’ora in poi, può fregiarsi il nuovo sovrano Tommen: l’episodio si apre proprio con l’incoronazione del ragazzo, il cui sguardo è però sempre rivolto alla bella Margaery, che non perde tempo a ricambiare l’interesse con languide occhiate e sorrisi ammalianti. Segue un piacevole battibecco fra la ragazza e una Cersei acida come sempre: un confronto dal quale esce vincitrice la giovane Tyrell, che incassate le provocazioni di mamma Lannister, replica ricordandole i propri doveri di futura sposa di ser Loras, senza nascondere, al tempo stesso, le sue mire verso Tommen (“Non saprei come chiamarti… Sorella o madre?”). Rosa dalla gelosia nei confronti di una Margaery-Biancaneve a sua volta pronta ad accettare il ruolo di “più bella del reame” con astuzia e consapevolezza (e Natalie Dormer, con la sua recitazione da finta ingenua, infonde al personaggio una carica di sensualità sempre maggiore), Cersei-Grimilde vede bene di addossare tutta la colpa della propria rovina sul povero Tyrion, raccomandando al padre la massima severità nel processo a suo carico per l’omicidio di Joffrey.
Se la stella di Cersei è in caduta libera, quella di Daenerys, momentaneamente stanziata a Meereen, incontra i primi veri ostacoli alla sua ascesa fino ad allora irresistibile, ora che nelle altre città della Baia degli Schiavisti i tiranni spodestati hanno riconquistato il potere. La Khaleesi sembra non dare peso alle preoccupazioni di ser Jorah, almeno fino al momento in cui, in The Laws of Gods and Men, acconsentendo la supplica di un nobile di Meereen di dare degna sepoltura al padre, da lei fatto crocifiggere sulle mura dopo l’assedio della città senza sapere che fosse contrario alla schiavitù, acquista la consapevolezza che la giustizia dei principi che la muovono non sempre la portano a commettere azioni giuste; dovrà quindi riflettere un po’ di più, specialmente quando ci sono altri duecento cittadini che le chiedono udienza, e a darle problemi ci si mette pure uno dei draghi, che pensa bene di farsi uno spuntino arrostendo il gregge di un malcapitato pastore locale.
Nel frattempo, a Nido dell’Aquila, prosegue la vicenda da romanzo d’appendice della povera Sansa, portata da Lord Baelish al cospetto dell’arcigna zia Lysa. Veniamo a sapere, in questa occasione, che Lysa ha avvelenato il marito secondo un piano criminale ideato proprio da Ditocorto, e che non è più disposta ad aspettare ancora per convolare a nozze con lui, infatti ha già provveduto a chiamare il septon, pronto a celebrare la funzione. Atmosfere inquietanti alla Jane Eyre ed esplosioni di violenza psicologica da cinema gotico (tutto è un tantino eccessivo, ma non potrebbe essere altrimenti con personaggi simili) caratterizzano il soggiorno di Sansa a Nido dell’Aquila: prima deve sorbirsi la rumorosa prima notte di nozze della diabolica coppia, poi è costretta a difendersi dalle insinuazioni e dalle minacce della zia riguardo a presunti rapporti con Ditocorto, con Lysa che trasferisce sulla nipote il rancore accumulato verso la sorella Cat (“Sono vergine, te lo giuro! Lui ama te, zia Lysa!”).
Passando per una breve, ma come sempre spassosa sequenza con Arya e il Mastino, in cui assistiamo a una delle tipiche lezioni di vita del Bud Spencer di Westeros alla giovane aspirante assassina, dopo che questa si era vantata di essere allieva di Syrio Forel (“Il tuo amico è morto e Meryn Trant no, perché Trant aveva un’armatura, e una grossa cazzo di spada” dice il Mastino, puntandole la lama alla gola dopo averla disarmata con facilità) e per un’altra, meno divertente, con Brienne e Podrick, si giunge al climax del quinto episodio, con l’entusiasmante resa dei conti al castello di Craster. Jon Snow arriva in tempo per impedire a Karl Tanner di fare scempio della giovanissima Meera, dando il via all’assedio, mentre il viscido Locke, inflitratosi nella spedizione, rapisce Bran per condurlo da Lord Bolton. Il ragazzo prende però il controllo di Hodor, il quale utilizza per una volta la propria forza sovrumana e lo libera, spezzando letteralmente il collo al mercenario. Se non convince la fine troppo sbrigativa riservata a Locke, che non concede a Jaime un’eventuale resa dei conti (per quanto vedere Hodor in modalità berserk ci abbia esaltati), fra i migliori dell’intera serie risulta invece il duello, ottimamente coreografato e violentissimo, fra Jon e Karl, che vede alla fine il figlio di Eddard, con l’aiuto di una delle ragazze del castello, impalare dietro la nuca il capo dei Corvi ribelli, il quale si conferma un villain di grande presenza scenica, grazie anche alla gigionesca interpretazione di Burn Gorman. L’incontro fra i due fratellastri è però ancora una volta rimandato, dato che Bran preferisce andare incontro al proprio destino di metamorfo e si allontana dal castello in fiamme con i suoi compagni, e il suo segmento, dopo averci regalato emozioni inaspettate negli ultimi due episodi, tornerà molto probabilmente a essere noioso come nel resto della saga.
The Laws of Gods and Men è incentrato quasi del tutto sul processo a Tyrion, ma inizia lontano dalla capitale, in quel di Braavos, città che vediamo qui per la prima volta, con tanto di statua del Titano (molto simile al Colosso di Rodi) che troneggia sul mare antistante, in una scena visivamente molto suggestiva. Per la Banca del Ferro di Braavos non contano né la gloria, né i titoli nobiliari, ma le garanzie in grado di offrire (“Credi che il sangue che ti scorre nelle vene ti dia un qualche diritto sul nostro oro?” si sente rispondere un attonito Stannis alla richiesta di un prestito). Ma ser Davos, dimostrando capacità di negoziatore degne della sua fedeltà, convince il banchiere a concedere a Stannis tutto l’oro di cui ha bisogno. Oro con cui l’ex contrabbandiere può assoldare nuovamente l’amico pirata Sallador Saan, che stava spassandosela con tre prostitute, in cambio della sua flotta.
Dalle atmosfere picaresche di Braavos, si passa a quelle dark e malsane di Forte Terrore, con Yara Greyjoy alla guida di un manipolo di Uomini di Ferro per liberare il fratello dalle grinfie di Ramsay Snow: una missione che fallisce proprio per colpa dello stesso Theon, ormai del tutto sottomesso al suo aguzzino e non intenzionato a separarsene. “Theon Greyjoy non esiste più” deve così ammettere la più grintosa degli Uomini di Ferro, costretta a ritirarsi, prima che Ramsay liberi contro di loro i suoi cani rabbiosi. Subito dopo, il bastardo dei Bolton, per premiare Theon della sua fedeltà, gli concede il privilegio di un bagno. Una sequenza abbastanza discutibile, sia per la facilità con la quale gli Uomini di Ferro rinunciano al loro obiettivo, sia per l’insistenza nel soffermarsi sulla dimensione prettamente sessuale della sottomissione di Theon (il cui rapporto con Ramsay assume valenze più esplicitamente gay) piuttosto che sui suoi risvolti psicologici. E se Alfie Allen interpreta ciò che resta dell’ex rampollo di casa Greyjoy con un’efficacia impressionante, altrettanto non si può dire di Iwan Rheon, che continua a non convincerci: sarà per quel ghigno stampato sulla faccia, ma il bastardo dei Bolton è ben lungi dal prendere il posto di Joffrey come uomo che ameremmo odiare, non possedendone né il carisma né le sfumature.
Si giunge così ad Approdo del Re, dove ha inizio il processo a Tyrion. Ovviamente si tratta di un processo-farsa, con il vecchio Tywin, nelle vesti di presidente del tribunale, che cerca di incastrare il figlio cadetto per l’omicidio di Joffrey, chiamando a deporre testimoni prezzolati come Meryn Trant (anzi, quel cazzone di Meryn Trant, per usare la parole del Mastino) o la stessa Cersei, ma nemmeno Lord Varys mostra lealtà verso il Folletto caduto in disgrazia. Vedendo la situazione del fratello senza via d’uscita, Jaime fa un accordo con il padre: lui rinuncerà al suo posto nella Guardia Reale e porterà avanti il nome dei Lannister, mentre Tyrion dovrà dichiararsi colpevole e implorare pietà, così gli sarà data la possibilità di prendere il nero e gli sarà risparmiata la vita. Ma quando viene chiamata a testimoniare Shae, che conferma la colpevolezza del nano (e la nostra impressione negativa di inizio stagione, su come l’ex concubina sia diventata un personaggio insopportabile) abbassandosi a calunnie di ogni sorta, Tyrion riacquista l’orgoglio, e in un monologo pieno di rabbia e frustrazione che Peter Dinklage interpreta con straordinaria intensità, legittimando una nuova candidatura al premio Emmy, prima sottolinea l’ingratitudine dei suoi concittadini (“Io ho salvato la città, e tutte le vostre inutili vite… Avrei dovuto lasciare che Stannis vi uccidesse tutti”), poi esprime tutto l’odio e la delusione nei loro confronti (“Non sono stato io a uccidere Joffrey, ma vorrei averlo fatto. Guardar morire quel bastardo violento mi ha dato più piacere di mille puttane bugiarde. Vorrei avere abbastanza veleno per annientarvi tutti”), infine chiede giustizia nel solo modo in cui gli è possibile ottenerla (“Esigo un verdetto per singolar tenzone”), memore di quando, a Nido dell’Aquila, si salvò la vita grazie a Bronn. Ma chi sarà disposto a battersi per lui adesso?
Una domanda che ci ha lasciati col fiato sospeso, per un eccellente finale di puntata, con cui la serie ci ricorda come il personaggio di Tyrion si elevi in ogni sua apparizione – per statura morale, carisma e carica emotiva – sopra tutti gli altri, risultando l’unico Lannister per il quale parteggiamo davvero, e per il quale siamo disposti a sopportare alcune debolezze nella caratterizzazione degli altri membri della famiglia (su tutti, un Jaime che non è né carne né pesce e una Cersei ormai troppo “cattiva perdente”) pur di vederlo sullo schermo.
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