Che strano chiamarsi Federico: la recensione
Che strano chiamarsi Federico è solo in parte un documentario su Federico Fellini. Piuttosto, è il ricordo di un’amicizia e di un vecchio amico. Ettore Scola, infatti, non vuole fornire un ritratto del regista riminese, né raccontare fatti ed eventi inediti, né tantomeno dare nuove interpretazioni o chiavi di lettura originali alla sua opera.
La carriera e i film di Federico Fellini vengono quindi riflessi dal racconto della lunga amicizia tra il regista de La dolce vita e quello di C’eravamo tanto amati: dai primi incontri nella redazione del periodico satirico e umoristico Il Marc’Aurelio, sorta di fucina di talenti per la commedia all’italiana prossima a venire – in quelle pagine mossero i primi passi, per esempio, Age e Scarpelli, Steno e Ruggero Maccari – fino alle lunghe chiacchierate nelle notte insonni passate in macchina in giro per Roma, o alla comune amicizia con Marcello Mastroianni. Tutto questo è raccontato non attraverso immagini di repertorio, documenti commentati o testimonianze di colleghi, amici comuni e addetti ai lavori, ma viene direttamente “riletto” e “ri-filmato” attraverso una rappresentazione, stilisticamente semplice e senza fronzoli, le cui fila sono tirate da un narratore di amarcordiana memoria.
Le immagini di repertorio, come i provini di Sordi, Tognazzi e Gassman per il Casanova, o le scene dei film, sono intrecciate a questi ricordi, e con essi dialogano; così, per esempio, il gruppo di motociclisti di Roma a un certo punto sorpassa l’auto in cui i due discutono in una delle tante peregrinazioni al chiaro di stelle, alle quali fanno da sfondo alcuni degli ambienti più tipici e ricorrenti delle opere felliniane. Il luogo più emblematico è pero lo Studio 5 di Cinecittà, quello in cui Fellini ha girato buona parte dei suoi lavori: continuamente, il carattere di finzione della ricostruzione viene infatti dichiarato mostrando il set allestito in questo teatro di posa, che nel 1993 diventerà la camera ardente dell’appena scomparso regista.
Proprio nel momento della morte dell’artista e dei tre giorni di pellegrinaggio di chi gli voleva offrire l’ultimo saluto, Scola si e ci concede uno strappo alla fantasia e all’onirico, facendo scappare l’inconfondibile figura con il cappello e la sciarpa rossa e facendola vagare attraverso i set abbandonati di Cinecittà, omaggiando così l’amico, “Pinocchio che per fortuna non è mai diventato un bambino perbene”. Vana speranza e semplice fantasia consolatoria di un amico (e di tutti noi)? Solo fino a un certo punto, perché la conquistata eternità di Fellini viene testimoniata dalla rassegna finale di spezzoni dei suoi film.
Difficile è giudicare con obiettività e distacco un documentario di questo genere, dove è evidente che il primo obiettivo è testimoniare un ricordo e renderne partecipe lo spettatore, e dove la parte strettamente stilistica (comunque, intendiamoci, per lo meno dignitosa) non è certamente il fulcro dell’opera; tanto più se il soggetto in questione è una figura della grandezza dell’autore di Amarcord, La strada e Ginger e Fred. Conquistati, i più anziani, anche dalla nostalgia, e i più giovani dall’ammirazione, è facile farsi contagiare dalla malinconica ed elegiaca tenerezza che traspare dall’opera, e che facilmente ci fa sorvolare sopra una certa approssimazione di certi momenti.
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Scritto da Edoardo Peretti.