Drift – Cavalca l’onda: la recensione
Un dramma sul surf fra l'elogio della famiglia e la nostalgia hippy
Drift – Cavalca l’onda è un film australiano del 2013 diretto dalla coppia Morgan O’Neill – Ben Nott, che va a piazzarsi nel novero delle migliori opere sul surf, sulla scia tracciata da classici come Un mercoledì da leoni e Point Break.
È proprio la classicità la cifra stilistica di questo bel dramma epico-familiare, al centro della cui storyline ci sono due fratelli surfisti, l’idealista e volitivo Andy e il talentuoso e sfuggente Jimmy, e il loro rapporto con le onde: un rapporto di passione assoluta, d’amore ma anche, e soprattutto, di sfida. Fin dai primi minuti della vicenda, nello splendido prologo in bianco e nero, non si era mai visto un mare così affascinante ma, allo stesso tempo, minaccioso, che diventa per i due protagonisti il mezzo per esorcizzare le paure e superare i limiti, lasciando lividi e cicatrici sui loro corpi muscolosi e sulle loro anime tormentate.
Sullo sfondo, l’inizio degli anni Settanta, quelli stessi raccontati nel finale di Un mercoledi da leoni, ma visti dall’altra parte dell’oceano, in quell’Australia ancora selvaggia e incontaminata nella quale il surf restava per il momento uno sport di natura spartana, non essendo ancora nato nessun business sulla vendita delle tavole e sugli sponsor: è proprio in questo campo che cerca di farsi strada il fratello maggiore, meno dotato sul piano atletico, facendo della sua passione un’attività imprenditoriale; una scelta che rischia di minare il rapporto con il fratello minore, campione talentuoso ma uomo schivo e solitario.
A tenere unito il gruppo pensano prima la solida madre dei due, vera e propria colonna della famiglia, la cui decisione iniziale funge da catalizzatore di tutta la vicenda, dall’altro un paio di forestieri che si presentano, fin dall’inizio, come le novità positive, provenienti dall’esterno e pronte a portare un vento di freschezza sull’ancora rozzo ambiente in cui si svolge la storia: il fotografo JB, hippy filosofo e deus ex machina della storia, e la surfista Lani, affascinante ragazza hawaiana che farà innamorare entrambi i fratelli, senza però mai ricoprire un ruolo divisivo.
Sono questi tre personaggi, che incarnano alla perfezione la duplice morale del film – che unisce all’elogio della famiglia una lode nostalgica alle utopie pacifiste – a tenere lontani i protagonisti dai pericoli che si presentano sul loro cammino, e che saranno poi quelli stessi che avrebbero distrutto quanto c’era di positivo in quel periodo storico, di cui il surf rappresentava la massima espressione nell’ambito sportivo: la tentazione del capitalismo, con lo sfruttamento e la perdita di dignità che ne conseguono; la violenza, con la quale i fratelli hanno a che fare fin dall’infanzia, a causa degli abusi del padre, e della quale finisce quasi vittima Lani; infine, le droghe pesanti, con tutto il loro risvolto di crimine, degradazione e devastazione fisica e mentale, contrapposte a quelle leggere e creative portate da JB.
Molto valido sul piano registico, con riprese di ampio respiro – spettacolari ma per nulla concitate – sulla cresta di onde davvero impressionanti, e con la sua puntuale ricostruzione dell’Australia di circa quarant’anni fa, il film si fa apprezzare anche sul piano della sceneggiatura, dando vita a una vicenda appassionante e coinvolgente fino all’ultimo e popolata da personaggi ben caratterizzati e stranamente lontani dallo stereotipo nel quale facilmente sarebbero potuti cadere.
Questo, grazie anche a un cast di buon livello, quasi del tutto composto da attori poco noti al di fuori dei confini australiani, che rende abbastanza credibili tutti i caratteri: nel ruolo di Andy, Myles Pollard, già star della serie Le sorelle McLeod e qui anche nelle vesti di produttore, sopperisce con il carisma scenico al gap anagrafico con il suo personaggio (ha almeno dieci anni in più di quanti richiedesse il ruolo); in quella di Jimmy, il bamboccione Xavier Samuel fa dimenticare la sua partecipazione, nelle vesti di un vampiro neonato, al quarto capitolo della saga di Twilight. Nei panni irsuti e stilosi di JB, infine, Sam Worthington, unica vera star internazionale del film, si attiene al ruolo senza strafare: al momento della sua entrata in scena, con indosso un cardigan cammello e la musica dei Creedence Clearwater Revival in sottofondo, è difficile però non pensare a Jeff Bridges ne Il grande Lebowski, di cui condivide l’atteggiamento scanzonato.
Tirando le somme, Drift – Cavalca l’onda, nella sua classicità un po’ vintage, rimane un esempio più che buono di cinema della terra dei canguri e una delle poche, valide alternative a quelle perversioni cinefile che riempiono i nostri multisala in questa estate 2013.
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Antonio M. | ||
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