Mad Men 6×12: la recensione
“The Quality of Mercy” precede il finale della sesta stagione di Mad Men, dando gli ultimi ritocchi allo show di Matthew Weiner e preparando il terreno agli attesi colpi di scena suggeriti sin dal primo episodio, ormai invocati come una liberazione. Nel frattempo viene sbrogliato qualche nodo, aprendo la situazione ai prossimi appetitosi sviluppi.
«Hanno ammazzato Kenny! Brutti bastardi!» è un’esclamazione che ben si adatta all’andazzo generale di questa sesta stagione. Ken Cosgrove incorre nell’ennesimo infortunio sul lavoro rischiando la morte bianca: i soliti dirigenti della General Motors dimenticano ogni pro-forma e gli sparano un colpo di fucile durante una battuta di caccia degna di un cartoon con Daffy Duck. La sorte di Ken viene lasciata volutamente in sospeso per un buon terzo dell’episodio, facendo tremare il pubblico ad ogni squillo del telefono, che potrebbe annunciarne la dipartita. Così non è, e il nostro riappare nell’ufficio di Madison Avenue con una benda nera su un occhio – proprio come il Moshe Dayan del poster in camera di Stan nel precedente “Favors“.
L’incidente di Ken è soltanto in apparenza un vezzo tragicomico. Lo sparo, violento e gratuito, innesca gli eventi che ruotano attorno ai temi principali della puntata e della stagione: il ripetersi della storia e la possibilità di emanciparsi da essa, dalla condanna a ruoli ineluttabili. Il riscatto passa attraverso la maturazione e l’esperienza, per coloro che riescono a dare la giusta lettura alle sibilline occasioni generate dal fato. Ken Cosgrove rinuncia al suo cliente più importante: «La Chevy mi sta uccidendo. Odio Detroit. Odio le automobili, odio le armi, non voglio più nemmeno guardare una bistecca!». Il suo manifesto vegetariano e non-violento lo riporta a casa, dalla moglie incinta e dai colleghi, dove è sicuro di poter lavorare in pace (ma soprattutto di rimanere vivo). Pete Campbell decide di cogliere la palla al balzo per rimpiazzare Ken, e per un momento è facile immaginare le terribili torture che i sadici dirigenti Chevrolet sapranno infliggergli, a suggello della sua discesa agli inferi (tanto più che il fucile da caccia di Pete va bene «solo per gli scoiattoli», come gli fa notare la segretaria). Ma non dobbiamo scordare che la storia di Pete Campbell non è più quella del marito fedifrago e dell’arrivista pieno di sé; Pete è sincero quando discute lo scambio con Ken, non cerca di nascondere il proprio interesse e confessa di essersi separato da Trudy, informazione inizialmente tenuta nascosta al mondo per la caparbia volontà di mantenere le apparenze. Qualcosa è cambiato nei modi di Pete, e in fondo alla sua strada non si dovrebbe trovare un finale scontato.
Gli autori dell’episodio suggeriscono una chiave di interpretazione alle evoluzioni dei protagonisti. Misericordia, pietà, compassione: sinonimi della “mercy” indicata dal titolo, che cita un verso di Shakespeare del Mercante di Venezia. È proprio Pete ad avere la vera possibilità di dare la grazia al chiacchieratissimo Bob Benson. Il conflitto tra i due raggiunge il suo climax nel lungo dialogo che li vede duellare colpo su colpo (di scena), risolvendo – almeno per adesso – il mistero di Bob. Duck Phillips ha scoperto la verità: Bob non è chi dice di essere, il suo curriculum è pieno di menzogne e l’unica cosa certa è che prima lavorava come domestico. «La sua unica opportunità lavorativa era in un posto dove fossero abbastanza stupidi da non fare domande»: e dove, se non alla SC&P, si possono assumere uomini la cui identità è fasulla? Pete rivive i traumi passati con Don, le scottature prese prima cercando di sbugiardarlo, poi per proteggerlo; e nel faccia a faccia con il nuovo mefistofelico rivale, si scopre artefice involontario della frode di Bob: è stato proprio Pete ad assumerlo, anche se ora non se ne ricorda. Ma non è questo a spingerlo verso una decisione imprevedibile; Pete ha capito che contro quel genere di avversario la scelta migliore è non giocare proprio. Se ne chiama fuori e abbandona Bob al suo draperiano desiderio di morte, non smascherandolo. «Tu trarrai beneficio dal fatto che ci sono già passato. Non so come fanno le persone come te a fare quello che fanno. Di certo sei più bravo tu in questo che io nel fare qualunque cosa faccia. […] Mi arrendo». Pete si pone “off-limits” dalle macchinazioni di Bob, e lo lascia procedere. Nella sua epocale decisione risiede la volontà di ricominciare da zero, come un uomo realmente rinnovato, e non, come Bob e Don, da fuggiasco condannato a portare una maschera. C’è da chiedersi quali saranno le conseguenze per gli altri, dal momento che Pete ha menzionato spesso, sia con il loschissimo Duck, che con lo stesso Bob, la sua misteriosa “precedente esperienza” in questo ambito, seminando indizi che potrebbero far insospettire i due mercenari e finire per metterli sulle tracce di Dick Whitman.
Chi non sta affatto migliorando la propria condizione filosofica è proprio Don Draper, che in questo episodio disattende ancora le promesse fatte a Ted sul lavoro e finisce per mettergli deliberatamente i bastoni tra le ruote nella casta storia con Peggy. Il Don di “The Quality of Mercy” non solo è spietato, ma è anche sudato, depresso e ubriaco a causa della vicenda con Sally; si raggomitola nel letto della figlia, ozia davanti alla televisione armato di bottiglia e cambia canale quando gli appare il viso della moglie nella sua soap-opera: ancora una volta le proteste di Megan non vengono ascoltate, nemmeno quando non sono direttamente rivolte al marito. Troviamo la coppia al cinema dopo la proiezione di Rosemary’s baby di Roman Polanski, le cui atmosfere disturbanti sono state evocate a più riprese durante la sesta stagione – e, con buona pace dei fan amanti delle teorie complottiste, Megan non vorrebbe mai «vivere in un appartamento come quello del film», e men che meno morirci. È al cinema che Don incontra Ted e Peggy e capisce che il legame tra i due si è trasformato in qualcosa del tutto al di fuori del suo controllo. Per il resto dell’episodio farà fuoco e fiamme per separarli, mosso da una gelosia mal celata dietro agli interessi della compagnia. L’imbarazzo che proviamo per l’evidente mielosità dei due durante i brainstorming creativi è superato solo dall’orrore per le azioni di Don nei loro confronti. L’incontro con un cliente preoccupato per il budget si carica di tensione nell’attesa dell’intervento di Don, che dovrebbe salvare la situazione ma che ne approfitta per affondare la sicurezza e l’autostima di Ted. Non ci sono giustificazioni, e, come gli dirà Peggy, Don è un mostro: «Tu lo hai distrutto. Hai distrutto la campagna, hai distrutto tutto. Ora puoi fermarti».
A sorprenderci, in questo pre-finale, è la piccola Sally Draper. In fuga dai genitori più che da se stessa, la ragazza si consegna mani e piedi alla scuola per “signorine perbene” frequentata un tempo da Jackie Kennedy Onassis (deludendo così i fan che ne pronosticavano la svolta hippy). Sally sfodera qui uno charme evidentemente ereditato dal padre, e quell’attitudine al problem solving che caratterizzava Don prima della spirale discendente. Sally si è fatta furba, e si mangia in un sol boccone le compagne che tentano di bulleggiarla; si fa raggiungere da Glen, trasformato per davvero in un giovane fricchettone con tanto di eskimo, liquori e droghe leggere; si rende fautrice di un party clandestino e manovra Glen fino a fargli prendere a pugni l’amico che l’accompagna; dimostra insomma di essere lei la vera rockstar della situazione, futura femme fatale e magari anche dark lady. Sulla via del ritorno fuma una sigaretta offertale da Betty, atteggiandosi a diva al punto da mettere a disagio persino la madre. Non svela però il segreto di Don: l’emancipazione di Sally, come quella di Pete, passa attraverso scelte non interventiste, e soprattutto si colloca in un nuovo campo da gioco, abbandonando i tormenti altrui in vista di un avvenire che possa essere suo e di nessun altro. Cosa ne sarà di loro? Per fortuna lo scopriremo molto presto…
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