Top of the Lake: la recensione
“We’re up in a place called Paradise, but is everything okay? Of course not.” Il posto chiamato Paradise è Laketop (Queenstown), in Nuova Zelanda. E’ qui che Jane Campion ha ambientato e diretto Top of the Lake, miniserie in sette episodi trasmessa da Sundance Channel (ultimo episodio lunedì 15 aprile) e ora disponibile in streaming su Netflix. Il lago del titolo è Wakatipu, lo stesso che fa da sfondo ad alcune scene de Il Signore degli Anelli. Un posto di una bellezza così devastante non passa certo inosservato.
Ma a farci notare che, a dispetto del nome, non tutto sia paradisiaco è GJ, “guru anti-guru” interpretata magnificamente da Holly Hunter che, vent’anni dopo Lezioni di Piano, ritorna a fianco di Jane Campion. Magrissima, androgina, con i capelli lunghi argento e la fila al centro, dalla sua sedia irradia, senza troppo sforzo, chi le sta intorno. La regista confessa di aver omaggiato per il carattere la figura di UG Krishnamurti – “the most free person I’d ever met who didn’t want something from you” – e per il look forse se stessa. Dura ma rassicurante, GJ non crede nella meditazione, ma nell’immobilità. Lei si definisce uno zombie, mentre Sundance Channel ha 10 ragioni per cui considerarla “a badass“. Il suo potere spirituale è solo realismo, semplicemente dice la verità alle donne “in a lot of pain” che le chiedono aiuto.
Jane Campion descrive un ritratto femminile ipnotico, incastonato in una location ai limiti dell’incredibile. Qui, in container con vista lago, vivono le donne che seguono GJ, diversamente sofferenti – c’è chi ha perso il suo amico scimpanzé, chi non accetta che il marito le preferisca una ragazza “much younger”, ci sono ninfomani con disturbi alimentari- in una sorta di rehab dell’anima. Già questo basterebbe a rendere importante Top of the Lake, eppure non siamo ancora entrati nella trama, ma in una sorta di movimento musicale che si contrappone, con la calma del lago e il giallo del grano, alla detection del plot, che si snoda tra boschi umidi e redneck con tatuaggi maori.
La sceneggiatura, scritta da Jane Campion assieme a Gerard Lee – già coautore con la regista di Sweetie e del corto Passionless Moments – racconta di una sparizione, quella di Tui (la bellissima Jacqueline Joe), figlia dodicenne e incinta di un boss della droga, Matt Mitcham, interpretato da un outstanding Peter Mullan (da recuperare la sua interpretazione in Tyrannosaur di Paddy Considine), che passa dal puntare il fucile contro i figli a flagellarsi nudo davanti alla tomba della madre, perfetto nel suo ruolo violento e profondo.
Ma è Elizabeth Moss la protagonista della serie. Suo il ruolo di Robin Griffin, detective di passaggio a casa della madre malata che si trova a dover risolvere il caso della scomparsa di Tui, tra traumi del passato che riemergono e instabilità a galla nel presente. Le sue corse nella foschia ricordano quelle di Jodie Foster ne Il silenzio degli innocenti, così come il suo sguardo aperto sui fatti, la sua forza e vulnerabilità insieme, “beautiful but real”, le dice Jane Campion. Per il ruolo di Robin, la regista all’inizio aveva pensato ad Anna Paquin – già incontrata sul set di Lezioni di piano, dove, a soli dieci anni, interpretava il ruolo delle piccola Flora, premiato con l’Oscar – anche per le sue origini neozelandesi che avrebbero reso più credibile come autoctono il personaggio. Elizabeth Moss, infatti, per guadagnarsi un impeccabile accento Kiwi, ha dovuto studiare molto, dimenticando i grattacieli di Manhattan (e il set di Mad Men dove, da sei stagioni, interpreta il ruolo di Peggy Olson) per immergersi (letteralmente) nelle acque gelate del lago.
Ad aiutarla nelle indagini è Al Parker (David Wenham), il capo della stazione di polizia di Queenstown che, oltre a mediare i non sempre facili rapporti con la gente del posto, gestisce un locale che dà lavoro a ragazzi svantaggiati. A subire il fascino algido e reale di Robin è anche Johnno Mitcham (Thomas M. Wright), fratellastro di Tui, legato al passato traumatico della detective ed ex detenuto in un carcere thailandese. Campeggia nei boschi, corre scalzo ed è segnato dal senso di colpa.
Tutti in Top of the Lake hanno ombre nel proprio passato e nebbie nel proprio presente: si tratta di personaggi irrisolti, in bilico tra tensioni distruttive e tentativi di assoluzione. Non c’è differenza, come invece sostiene Mike Hale sulle pagine de The New York Times, tra “swinish men and damaged women”. Non c’è femminismo nella visione di Jane Campion, perché tutti, donne e uomini, falliscono. E non è un caso che proprio la protagonista femminile, Robin, colei che ha il compito di cercare la verità, arrivi a dire: “Fuck the truth”.
E’ la regista a spiegarlo:
I mean, something that the story allows us is to give a polarizing look at the way men and women [engage] in an extreme situation. I’m pretty interested in that. And the women’s camp where they’re broken down — they’ve no longer got any hope of fitting into the world, so they’re kind of outspoken. They’re broken and outspoken. They’ve fallen off the social edge of the world. Their story doesn’t have a part for them to play, which is the unfuckables. They kind of know it, and it’s sad, but it’s also liberating.
Il senso di liberazione a cui allude Jane Campion è quello che sprigiona la natura, madre ancestrale onnipresente nel racconto e nei rapporti antropologici. La stessa natura che accoglierà Tui nel suo ventre e ne nasconderà ogni traccia (stupendo l’attimo in cui la bambina, con il fucile teso, sibila come un gatto). Non a caso certe atmosfere, oltre alle cime montuose sullo sfondo della sigla, ricordano Twin Peaks, suggerendo una lettura ora morbosa, ora sovrannaturale della trama e ricordandoci la lezione lynchiana del “niente è come sembra”. L’unica cosa su cui non ci sono dubbi è che Top of the Lake sia bellissimo, da vedere immediatamente.
Dopo il Sundance e la Berlinale, sarà Cannes la prossima vetrina per Top of the Lake. I primi due episodi della serie saranno infatti presentati giovedì 16 maggio durante il Festival d’Oltralpe, che quest’anno assegnerà a Jane Campion il premio La Carrosse d’Or.
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Scritto da Giusy Palumbo.