Mad Men 6×03: la recensione
La sesta stagione di Mad Men prosegue con The Collaborators, diretto da Jon Hamm in persona e scritto da Matthew Weiner e Jonathan Igla. Questo terzo episodio è giocato sulle improbabili geometrie che i rapporti di buon vicinato creano per Pete e Trudy nei sobborghi del Connecticut e per Don e Megan nel cuore di Manhattan.
Don ha un nuovo amico, il vicino Arnold Rosen, ma ne ha sedotto la moglie, Sylvia, con la quale ora ha una relazione; Megan, felicemente ignara, elegge la signora Rosen sua confidente, rendendola partecipe del suo senso di colpa misto a sollievo per un aborto spontaneo. Pete ha un incontro amoroso con una vicina di casa, che verrà per questo picchiata a sangue dal marito e soccorsa da Trudy.
Il tormentone che caratterizza la puntata è un continuo incontrarsi di personaggi che, per via dei loro segreti, non dovrebbero trovarsi a tu per tu. Sylvia è a disagio durante la conversazione con Megan, Pete non vorrebbe mai lasciare Trudy in compagnia della vicina sanguinante, Don e Sylvia rimangono soli al ristorante in un accidentale appuntamento romantico durante il quale abbondano tensioni e imbarazzo.
Viene dato grande spazio alla definitiva trasformazione di Pete Campbell. L’ambizioso e frustrato Pete completa il proprio arco evolutivo trasfigurando irrevocabilmente nel personaggio che aveva dato a Ken Cosgrove l’ispirazione per il racconto di fantascienza a chiosa dell’episodio Signal 30 nella quinta stagione. Inizialmente un borghese come tanti, con le sue luci e le sue ombre, Pete subisce una sorta di «draperizzazione» tanto fulminea quanto greve: lo vediamo infatti ripercorrere le tappe già dolorosamente vissute da Don, ma senza interiorizzarne alcun significato esistenziale. Ha una vita fondata su apparenze labili, che non lo gratificano mai né a casa, dove si sente intrappolato, né nello spartano appartamento newyorkese sprovvisto di carta igienica, dove cerca di evadere dalla sua mediocrità. È incapace di riconoscere le proprie colpe, ma l’assenza di pietà che lo distingue gli si ritorce contro nel confronto con la moglie. Trudy, ben lontana dalle fragilità della prima signora Draper, non solo è perfettamente conscia delle liaison del marito, ma ne è in un certo senso l’organizzatrice; e ora che è sconvolta (non dal tradimento, ma dallo scandalo derivatone) non ha nessuna esitazione nel metterlo alla porta.
In The Collaborators la freddezza degli uomini è al centro dell’attenzione. Il distacco glaciale con cui Pete affronta l’inaudita esplosione di violenza di cui è in parte responsabile fa da controcanto all’indifferenza che Don Draper ostenta nei confronti delle vittime delle sue antiche abitudini. Don, infastidito dall’ipocrisia dei sensi di colpa espressi dalla sua nuova amante, fa un manifesto della calma olimpica con cui gestisce la situazione; persuasivo come sempre, demolisce le resistenze di Sylvia, le cui parole ingenue (“Dobbiamo stare attenti, non possiamo innamorarci”) e il cui nome (ispirato forse a Sylvia Plath?) suonano come il preludio a un destino foriero di infelicità.
La morale di Don si rivela meno ambigua in ufficio, dove il nostro antieroe si dimostra incredibilmente leale col direttore marketing dei fagioli Heinz (“A volte devi ballare con quello che ti ha invitato”), per poi distinguere tra buoni e cattivi punendo Herb, il sordido manager della Jaguar fautore dell’umiliazione di Joan nella scorsa stagione. Troviamo una spiegazione, forse troppo semplice, di cosa si nasconda alle origini dei conflitti di Don in alcuni flashback che mostrano il giovane Dick Whitman e la madre adottiva ospiti di una casa d’appuntamenti. L’adolescente che un giorno si chiamerà Don Draper spia lo zio, sedicente gallo nel pollaio, approfittarsi della madre (in avanzato stato di gravidanza), in una scena già brutalmente anticipata dal Don odierno che offre del denaro a Sylvia con un gesto fin troppo scontato.
La vicenda di Peggy Olson resta nel territorio dell’etica professionale: severa come le è stato insegnato, strapazza i sottoposti per poi tentare goffamente un recupero in dolcezza che viene punito con uno stupido scherzo. Ma soprattutto la vediamo tentennare davanti al dilemma introdotto dal nuovo capo Ted Chaough che, mellifluo, le chiede di tradire il buon amico Stan per rubare un cliente importante alla Sterling Cooper Draper Pryce.
Nulla di sorprendente, quindi. L’equilibrio tra cinismo e umana pietas è la linea di confine su cui corrono da sempre tutti i personaggi di Mad Men. E se questa sesta stagione si propone di spingerli oltre il limite, possiamo ipotizzare che il loro Caronte sarà Bob, la nuova figura apparentemente fuori posto che si aggira tra gli uffici di Madison Avenue con un entusiasmo che nessuno pare condividere.
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