Young Adult: la recensione
Young Adult è una delle ultime vittime della sconsideratezza distributiva italiana. Il nuovo film del non-proprio-sconosciuto Jason Reitman (che vanta in curriculum Tra le nuvole, Juno e Thank You For Smoking) è uscito in un numero ridicolo di sale, neanche fosse la più strana e sperimentale delle opere prime. A quanto pare non basta la presenza della star Charlize Theron, oltretutto bravissima; i meccanismi del settore cinematografico nostrano rimangono imperscrutabili.
Mavis Gary vive sola col suo cagnolino ultravivace che lei preferisce ignorare; così come ignora la sua età anagrafica e non si cura di mettere ordine nella propria vita. Tra un libro per ragazzi e l’altro beve molto e mangia poco, abbrutendosi tra reality show, partner occasionali e una vita in pigiama. Eppure Mavis è bella (bella come lo sono le reginette della scuola) e lo sa, così quando scopre che Buddy -ex storico del liceo rimasto nello stesso paesello d’origine da cui Mavis è scappata- è appena diventato padre, una missione sbagliatissima scatta nella sua testa: decide che è una richiesta d’aiuto, che il destino li vuole assieme, che deve riconquistarlo per portarlo via dalla mediocrità. Così Mavis parte per Mercury, il cane in borsa e un’audiocassetta anni Novanta nello stereo ascoltata a ripetizione, lampante simbolo della sua esistenza bloccata.
Reitman torna a collaborare con Diablo Cody, sempre acuta nel tratteggiare ritratti femminili giocando con cliché prettamente nordamericani: in questo caso dietro i disturbi di Mavis si intravedono le conseguenze di un sistema di pressioni e aspettative sociali che, come migliaia di film e telefilm su high school e prom ci hanno insegnato, incomincia in tenera età con l’etichettatura attraverso stereotipi decennali, siano essi adesione alla conformità o rifiuto della stessa attraverso ripetute ribellioni. Young Adult sceglie l’efficace e inedito punto di vista di una donna adulta che si è distratta dalla vita arrovellandosi sui suoi “anni migliori”, restando arroccata dietro un linguaggio e una capacità di giudizio da scuole superiori e contemporaneamente inaridendo completamente la sua capacità di “sentire”.
Mavis non si accorge di essere fuori luogo, vestita da vamp in un bar come tanti, o da lussuosa maestrina alla festa molto casual per una neonata. Non si accorge che gli altri la guardano male, chi con commiserazione, chi con disprezzo. Ignora l’evidenza quando il quasi-amico Matt (Patton Oswalt) gliela mette davanti, oppure la distorce, almeno fino alla scena madre che tutti auspicavano evitabile, ma che è il solo modo di Mavis di relazionarsi al mondo: plateale, esagerato, fuori luogo, appunto. Tutto crolla, ma solo per un attimo: basta che l’immagine di sé riflessa in qualcun altro torni anche solo una volta a corrispondere alla sua perché la consapevolezza sia di nuovo distorta.
La realtà che Mavis riconosce è mediata da una canzone del liceo o dalle parole che lei stessa mette in bocca alla protagonista adolescente del suo libro, altra incompresa bella della scuola che le somiglia come goccia d’acqua: ma quell’andare avanti finale è tutto retorico, e se è un lieto fine all’acqua di rose per un romanzetto che si conclude col diploma della protagonista, suona particolarmente vuoto nel caso di Mavis e della sua ritrosia a cambiare le cose in profondità.
Reitman ci consegna una rappresentazione amarissima dell’età adulta, in cui non si salvano Buddy e la moglie, colmi di oridinari buoni sentimenti e di ipocrita pietà; né del tutto il buon Matt, che Mavis punge sul vivo quando poco elegantemente gli rinfaccia di crogiolarsi nell’autocommiserazione; soprattutto non si salva Mavis, che lascia il sospetto di disturbi patologici che verranno per sempre ignorati, come suggeriscono le reazioni dei genitori. Si salva alla grande Charlize Theron, incredibilmente credibile nel rendersi imbarazzante pur indossando la propria sfolgorante bellezza.
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Alice C. | Edoardo P. | Giacomo B. | ||
7 | 7 | 8 |
Scritto da Chiara Checcaglini.