Venezia 68° – Dark Horse: la recensione
È stato presentato a Venezia 68°, in concorso, Dark Horse di Todd Solondz.
Abe, immaturo trentenne ebreo in sovrappeso, lavora nell’impresa di famiglia e vive ancora con i genitori. Conosce a un matrimonio l’affascinante coetanea Miranda, scrittrice fallita, e se ne innamora; tuttavia, più che i dubbi di lei, a contrastare la relazione fra i due è l’esagerata mancanza di autostima di lui.
Diretta con mano sicura dall’ottimo specialista Todd Solondz, già al Lido due anni fa con il corale Perdona e dimentica, questa commedia nerissima mette in scena il dramma esistenziale di una generazione allo sbando, quella dei trentenni, attraverso il ritratto di un antieroe negativo ma accattivante per il quale sembra provare vera compassione.
Risulta facile, per lo spettatore di quell’età, identificarsi nel protagonista, un bambinone dallo spirito fortemente nerd, che colleziona action figures (soprattutto dei Thundercats) e cimeli cinematografici, ed è incapace di uscire dall’alveo familiare, anche se più per comodità che per convinzione. Afflitto da un gigantesco complesso di inferiorità, che gli causa problemi relazionali con tutti, soprattutto con le donne, Abe rifiuta di assumersi responsabilità, addossando le colpe del proprio fallimento ai genitori, soprattutto al padre (un cadaverico e misurato Christopher Walken), che lo ha sempre considerato un buono a nulla, un ronzino (appunto un Dark Horse): questo fa di lui la cartina di tornasole di una società in cui non conta partecipare, ma solo vincere, a qualsiasi prezzo e a prescindere dalle proprie qualità.
Sul piano registico, il film si fa apprezzare per la capacità di entrare subito in sintonia con il punto di vista di Abe, mostrando un mondo provinciale e sempliciotto, quasi da sitcom, fatto di colori pastello e canzoncine pop adolescenziali, in cui ognuno appare fedele allo stereotipo che gli è stato affibbiato (il padre deluso, la madre protettiva, il fratello di successo, la segretaria risolutiva). Sfugge a questa logica l’imprevedibile Miranda (una Selma Blair ormai attrice matura, che sembra la versione invecchiata e catatonica delle ragazzine tormentate interpretate in molti film precedenti), che irrompe nella vita del protagonista e ne sconvolge il già precario equilibrio, in una riuscita alternanza di narrazione degli eventi ed elucubrazioni mentali.
Su tutti, svetta la prova del corpulento Jordan Gelber, attore proveniente dal teatro, dotato di una fisicità perfetta e di un innato carisma, a metà fra John Candy e Jon Favreau. Ottima, fra gli altri, anche Mia Farrow, madre per eccellenza del cinema d’autore americano, da Rosemary’s Baby in poi.
Accolto da un caloroso e lungo applauso in Sala Grande, Dark Horse è un film decisamente riuscito nel suo genere, per cui si auspica un’adeguata distribuzione nelle sale italiane.
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