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C’è chi dice no: la recensione
In questi giorni su facebook una scritta rimbalza di profilo in profilo: “Non fate finta di vivere in un paese normale”. A prescindere dalle convinzioni politiche di ognuno, è innegabile che il Bel (?) Paese, con tutto l’amore che possiamo provare nei suoi confronti, sia un contesto più unico che raro, totalmente autoreferenziale, uno Stato (e soprattutto una cultura) che per qualche motivo più o meno comprensibile si ritiene estraneo ai criteri con cui opinione pubblica, media, leader stranieri e via dicendo (leggi: tutto il resto del mondo) percepiscono le singole identità nazionali. La cara vecchia Italia “così è”, e mica tanto “se vi pare”.
Per questo credo che C’è chi dice no sia assolutamente refrattario all’esportazione: la nuova pellicola di Giambattista Avellino (La matassa, Il 7 e l’8), incentrata sul problema dei raccomandati, dipinge un quadro così intrinsecamente italiano da risultare probabilmente inaccessibile al di fuori dei confini nazionali. Certo, non voglio peccare d’ingenuità (o campanilismo!) e sostenere che aiutini e spintarelle siano una nostra esclusiva, ma mi riesce difficile immaginare un altro Paese in cui il mondo del lavoro sia talmente dominato da nepotismo e “segnalazioni” (per utilizzare un eufemismo ricorrente nei dialoghi del film) e la meritocrazia sia morta, sepolta e neppure compianta.
La storia prende le mosse da una rimpatriata tra compagni di liceo per il ventennale della maturità, occasione in cui i tre protagonisti, Max (Luca Argentero), Irma (Paola Cortellesi) e Samuele (Paolo Ruffini) si rendono conto di essere gli unici a non aver fatto carriera perché hanno puntato sulle proprie capacità invece che sugli agganci familiari. L’odio per il nemico comune (i Raccomandati, rappresentati dagli ex compagni di classe, ma soprattutto dai rispettivi antagonisti in ambito lavorativo) funge da collante per un nuovo sodalizio fra i tre, che scoprono di subire le stesse angherie nonostante si muovano in tre mondi distinti.
L’acume e la competenza giornalistica di Massimo vengono sistematicamente schiacciati da new entry con legami di parentela importanti (l’agognato contratto questa volta gli viene soffiato da Enza, svampita figlia di papà, interpretata da Myriam Catania); Irma si vede rubare il posto di medico dalla moglie australiana (e mozzafiato) del suo capo (Harriet Macmasters Green). Samuele invece ha persino “l’ardire” di sognare una carriera accademica, per giunta in ambito giuridico: per lui essere scavalcato del raccomandato di turno (Pino Conca, interpretato da Marco Bocci) non è che l’ennesimo affronto dopo un decennio di concorsi truccati, di insegnamento gratuito, di ricerca nel suo “ufficio” improvvisato in un bagno e di redazione di articoli puntualmente firmati dai suoi superiori.
Per i tre amici arriva però il momento della riscossa: come annunciato dal titolo, non solo “dicono no”, ma lo fanno in un modo originale e diabolicamente architettato, “scambiandosi” i raccomandati a cui far pagare tutte le ingiustizie subite senza essere rintracciati. Parte così una lunga sequela di scherzi telefonici e non, minacce, violazioni di domicilio e chi più ne ha più ne metta, inclusi un incendio doloso e un sequestro di animale. Il sistema sembra funzionare, nonostante i due poliziotti assegnati alle indagini (e non meno vittime del sistema antimeritocratico) siano sulla pista giusta… Ma proprio quando i nodi cominciano a venire al pettine, il film precipita in quello stesso sistema che si proponeva di contestare.
La pellicola si inserisce nel filone di denuncia inaugurato da Tutta la vita davanti, offrendo un’ulteriore (e triplice) prospettiva sui problemi dei giovani moderni, dell’incertezza, del precariato e dell’impossibilità di arrivare all’autosufficienza (per non parlare del costruirsi una famiglia). Su carta la formula è quella vincente della commedia pseudo-impegnata, che, secondo il più classico degli espedienti stilistici, utilizza la risata per far luce sulle profonde piaghe della vita italiana del nuovo millennio. La tesi di fondo è ugualmente ineccepibile: il sistema non cambia perché nessuno fa niente per cambiarlo, perché l’inerzia e la tradizione governano da sempre le dinamiche culturali, sociali, economiche e civili del nostro Paese.
Alla resa dei conti, tuttavia, il film ripiomba rovinosamente in quello stesso clima di acquiescenza e immutabilità da cui voleva prendere le distanze: una prevedibile (e per questo doppiamente irritante) caduta nel buonismo che prevede prima la redenzione di due dei tre “nemici”, poi la giustificazione del temporaneo voltabandiera di uno dei tre paladini e infine l’immancabile riscatto di quest’ultimo (e ho omesso volutamente l’inutile spoiler alert,).
Nell’insieme si tratta di una pellicola sicuramente godibile, con trovate rocambolesche che regalano numerosi momenti d’ilarità e con un rinvigorente impeto ribelle e cospiratore che contagerà qualunque spettatore (nostrano, ben inteso). Il cast, in buona parte di provenienza televisiva, risulta complessivamente ben assortito e bilanciato, nonostante le (poche) incursioni nella psiche dei personaggi rientrino in una dimensione piuttosto stereotipata e caricaturale. Da segnalare la buona performance di Paola Cortellesi, che ultimamente ha dato prova di notevole funambolismo, spaziando dalla neo-escort capitolina di Nessuno mi può giudicare alla toscanissima dottoressa Irma (passando per le innumerevoli imitazioni televisive a cui deve la sua notorietà).
Il vero punto debole del film rimane però la volontà di mascherare da lieto fine quello che in realtà è il picco dell’amarezza che serpeggia tra i precari del nostro tempo, soprattutto per quanto riguarda il mondo accademico. Ne è emblema il commento del professore ordinario nella fase di “revisione” dei concorsi truccati, parlando di una candidata estremamente meritevole scavalcata dall’ennesimo raccomandato: “Diciotto pubblicazioni, trentadue convegni e viene qua a fare il concorso… Ma vai in America a fare i soldi, puttana!”.
La battuta, che nel suo contesto strappa almeno una risata (più o meno amara, a seconda della situazione lavorativa dello spettatore), si rivela però assolutamente profetica. Dopo il coinvolgente bailamme rivoluzionario e l’entusiasmante sfida aperta al sistema si approda a una situazione di finto ottimismo che offre qualche speranza (quantomeno affettiva) ai due professionisti, ma in fin dei conti non lascia nemmeno il conforto dell’illusione al povero Samuele. L’Italia, si diceva, così è e così si ostina a rimanere, prendere o lasciare. Purtroppo, a prescindere dai successi ottenuti in itinere dai protagonisti, l’unico vero rimedio sembra proprio il lasciare, la fuga verso altri lidi, almeno per chi sogna la ricerca. E questo, per quanto venga infarcito di sorrisi, convivialità e partite di Subbuteo, non è certo un lieto fine. Caveat spectator, dunque: c’è ancora un estremo bisogno di dire no, non importa “quanta gente comunque ci sarà / che si accontenterà.”.
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