Mad Men 6×13: la recensione
“In Care Of” mette la parola fine a questa sesta stagione di Mad Men. Scritto e diretto da Matthew Weiner, con la collaborazione di Carly Wray alla sceneggiatura, l’episodio chiude con un cliffhanger che rimescola le carte in tavola. La svolta agognata dai fan sin dalla prima stagione sembra essere arrivata: Peggy Olson sta finalmente facendo le scarpe a Don Draper. Le altre novità riguardano invece i viaggi che i nostri eroi dovranno intraprendere nel futuro immediato.
La geografia è motivo di scherno (ma anche di scorno) in quest’ultima puntata; Los Angeles, come sempre, è terra di frontiera, e i personaggi di Mad Men fanno a gara per diventarne i pionieri. Don tenta di scoraggiare l’entusiasmo di Stan, che vuole trasferirsi nel nuovo ufficio della SC&P in California: «Los Angeles non è quello che vedi nei film: è come Detroit con le palme». Detroit è ancora presente nella mappa dello show, anche se nella settima stagione la vedremo quasi certamente sostituita dalla cara L.A. «Com’era la Motor City?», domanda Roger a Pete, che risponde con un gioco di parole intraducibile («I found a deli but the airport is like Calcutta», dove “deli” sta per “delicatessen” ma richiama il nome della capitale indiana). Pochi secondi dopo, Roger piomba come un falco su Bob, evidentemente troppo sollecito nei confronti di Joan, e gli regala una memorabile perla di saggezza: «Bè, lo sai cosa si dice di Detroit… È tutto rose e fiori, finché non ti sparano in faccia». Come dargli torto?
La discesa agli inferi di Don Draper si infiamma durante una tradizionale visita al bar dove Don incontra quello che probabilmente è il diavolo in persona, nei panni di un sinistro predicatore della parola di Cristo. Don non è più indifferente alle sorti della nazione, e si fa paladino dei Kennedy, di Martin Luther King e dei caduti del Vietnam. Passa la notte in cella, girone infernale stipato di dannati, per tornare da Megan il mattino dopo con la ferrea decisione di non bere più un goccio d’alcol. Le sue buone intenzioni, nella vita come nella politica, sono poco credibili già nei loro presupposti: Don ruba il progetto di rinnovamento professionale ed esistenziale di Stan; descrive a Megan le meraviglie dell’ipotetico nuovo inizio californiano citando testualmente le parole del collega, e chiudendo il suo accorato appello con un improbabile «siamo stati felici, laggiù» (è vero, ma per tre giorni). Convince la nuova moglie a licenziarsi dal lavoro in cambio di nebulose promesse, poi chiama la sua ex “passerotto” davanti a lei; ma soprattutto, cede il posto a L.A. a Ted come se niente fosse. Megan è stata completamente annullata: Don si è reso conto che in fondo è sufficiente liberarsi di lei per restaurare l’ordine nella sua vita, spedendola a Los Angeles da sola a viversi una relazione a distanza da una costa all’altra. Come sempre, le manipolazioni di Don non riguardano solo Megan, ma pressoché tutti coloro che fanno parte del suo cosmo. La scena della raccapricciante presentazione per Hershey’s dimostra l’abilità di Don nel rivoltare qualsiasi situazione a proprio piacimento, senza considerare quali interessi altrui possano trovarsi in gioco. Usa quel momento per un coming out la cui finalità rimane per ora oscura, tirando in ballo i traumi giovanili nel famigerato bordello dei flashback; ripete l’operazione coi suoi figli, portandoli davanti al rudere da film dell’orrore della casa, dove ora si aggirano nuovi poveri (per la precisione un bambino nero). È una sorta di ricatto morale verso Sally, qui definitivamente trasfigurata in “badass” che risponde troppo poco e troppo causticamente alle chiamate di Don, si sbronza, falsifica documenti e non sembra avere alcun rispetto per l’evanescente autorità paterna.
“In Care Of” fa il punto della situazione nel triangolo Bob-Joan-Roger. Bob, evidentemente uno dei peggiori intrallazzoni di tutti i tempi, non sembra aver colto quale sia la verità sui due partner, e pensa che Roger sia stato invitato al pranzo del Ringraziamento in casa Harris per corteggiare Gail. L’ingenuità di Bob potrebbe non essere artificiosa: il personaggio ha continue défaillance che ne restituiscono un’immagine forse ancor più inquietante, ovvero quella di uno psicopatico distratto e approssimativo, pericolosamente imprevedibile nella sua sbadataggine. Joan, dal canto suo, sembra usare Bob più che altro per infastidire Roger, sempre più insistente e sollecito nei confronti del figlio naturale; ma quello di Joan è un vezzo innocuo, e finirà infatti per accogliere Roger nella vita del bambino, sotto la supervisione di Bob, il suo nuovo amico (gay?).
La vicenda di Pete Campbell raggiunge il suo climax con la sparizione in mare della matriarca Dot, probabilmente uccisa dall’infermiere Manolo Colon, alias Marcus Constantine, che l’ha sposata di nascosto credendola ricca. A metà tra il noir e la soap-opera, questa sottotrama si svolge interamente fuori dallo schermo e raggiunge Pete e gli spettatori solo attraverso telefonate e telegrammi. Tra una chiamata e l’altra, Pete vola a Detroit assieme al nemico giurato Bob Benson; incuriosisce non poco l’autocontrollo di Pete che, pur ritenendo Bob complice nell’omicidio della madre, non prende alcuna iniziativa nei suoi confronti, se non quella di strigliarlo brevemente in ascensore. È evidente il sollievo provato da Pete e dal fratello davanti alla scomparsa di quello che era stato un problema angoscioso, tant’è che i due decidono di non investire ulteriormente le proprie sostanze nel tentativo di far arrestare Manolo. Bob, implacabile, mette alla prova Pete coi dirigenti Chevrolet – a ciascuno il suo demone; Pete ne ha però guadagnati parecchi, sommando Bob e la Chevy. Gli indiavolati magnati dell’automobile lo costringono a provare un modello col cambio manuale, con conseguenze disastrose. D’altra parte, è ben noto come gli americani non sappiano proprio cosa fare senza il cambio automatico, mentre l’avventuriero Bob Benson, che forse mente anche sulla propria nazionalità, è in grado di guidare come Dio comanda. L’incidente a Detroit non ha ripercussioni negative sulla vita di Pete, che viene invece mandato a Los Angeles col nuovo team, finalmente libero di ricominciare da zero. È Trudy a fare il sommario di questa evoluzione dolorosa e necessaria: «Penso che sia meglio che tu rimanga solo, adesso. […] Ti ci vorrà un po’ per realizzare a che punto sei: sei libero. Libero da lei, libero da loro, libero da qualsiasi cosa». Con questo ottimo auspicio Pete si accomiata dalla figlioletta Tammy, in una scena ad alto tasso di lacrime e dal retrogusto vagamente ipocrita (Pete non si è mai mostrato granché interessato alle sorti della sua bambina).
Nel frattempo Ted Chaough mette in pericolo la serenità del suo stuolo di infanti, provocato da una Peggy Olson fuori parte in una conturbante (anche troppo) imitazione di Marilyn Monroe. La carriera di Peggy come homewrecker dura talmente poco da non farci nemmeno preoccupare per lei. Ted fa promesse a vanvera parlando di divorzio e Hawaii, ma si trova subito dilaniato dai sensi di colpa e pronto a fare marcia indietro. Coinvolge Don nei suoi patemi, forse guidato dall’irrefrenabile desiderio di conquistare tutto ciò su cui il suo partner mette le mani, Los Angeles compresa, e lo supplica di scambiare le parti. È in questi passaggi che si trova il dunque del cliffhanger di fine stagione. Don, in un certo senso, salva Peggy da un misero destino di amante zitella oggi e cat lady domani, cedendo il proprio posto al sole a Ted. Non ci sono calcoli dietro a queste mosse, e nella partita a scacchi della SC&P non è possibile prevedere così tante variazioni di scenario; ma se Don avesse orchestrato tutto per liberarsi in un colpo solo di Ted e di Megan, meriterebbe davvero la sua fama di genio. Allo stesso modo Ted dà a Don un involontario colpo di grazia, consigliandogli di non smettere di bere di punto in bianco – sottintendendo che Don sia un vero e proprio alcolista, a rischio di crisi d’astinenza. Don gli dà ascolto e si riattacca alla bottiglia, dopo di che vediamo le sue mani tremare durante l’incontro con Hershey’s: quello che Ted ha (non) detto si sta concretizzando.
La vera notizia è l’allontanamento a tempo indeterminato di Don dalla SC&P, imposto da un comitato austeramente rappresentato da Joan, Roger e Jim Cutler, guidati da un Bert Cooper alquanto irritato. La loro decisione è il primo germoglio della settima stagione; ne abbiamo un assaggio con la promozione di Peggy a direttore creativo. La troviamo insediata nell’ufficio di Don, che sostituirà per parecchio tempo, accolta da uno Stan vendicativamente felice di vederla lì. È una conclusione che ci lascia con decine e decine di domande. Cosa ne sarà di Megan sulla West Coast, da sola con Charles Manson? Stan e Peggy faranno sesso? Qual è il significato dello spostamento di pesi e gerarchie negli uffici? E cosa ci faceva Duck Phillips alla SC&P nel giorno del Ringraziamento? Ci sono dei reset button che possono ancora salvare la posizione di Don Draper; ma Matthew Weiner sarà così grossolano da schiacciarli?
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