Amityville Possession di Damiano Damiani è uno di quei casi di decentramento creativo da parte di un autore impegnato su tutt’altro versante della propria produzione, col risultato di un’incursione di genere che proprio in ragione di quella diversità di sguardo, di quella para-normalità, riesce del tutto peculiare.

Il film di Damiani segue il primo della saga, quell’Amityville Horror (1979) di Stuart Rosenberg di cui è prequel, ma dal quale è costretto, per controversie di produzione, a prendere ufficialmente le distanze con un disclaimer nella locandina. George Lutz, che aveva vissuto in prima persona insieme ai propri cari i fenomeni paranormali della villa appartenuta ai DeFeo, esigeva infatti che il film fosse tratto dal romanzo The Amityville Horror Part II di John G. Jones. Il produttore Dino De Laurentiis optò invece per Murder Amityville di Hans Holzer, in cui l’autore sosteneva la teoria secondo cui Ronald DeFeo Jr. avrebbe sterminato la propria famiglia in quanto posseduto da un’entità demoniaca. Da qui la frizione e la causa giudiziaria tra Lutz e De Laurentiis, con vittoria di quest’ultimo, ma con l’obbligo a precisare come il film non avesse nulla a che fare con la storia della famiglia Lutz.

Nonostante lo scarso entusiasmo di Damiani ad adattare la vecchia sceneggiatura di Dardano Sacchetti, poi ripresa da Tommy Lee Wallace (Halloween III), cimentandosi in un horror, la pellicola, che segnò il debutto all’estero con un lungometraggio del regista, viene ritenuta dai più la meglio riuscita della serie. Di certo, molto diversa rispetto agli altri titoli. La storia è quella della famiglia Montelli, che va a vivere nella classica casa maledetta ad Amityville. Un padre tirannico (Burt Young), una madre sull’orlo di una crisi di nervi (Rutanya Alda), e un figlio polemico, Sonny (Jack Magner), fortemente legato alla sorella minore Patricia (Diane Franklin), compongono il ritratto di famiglia in un inferno. È Sonny a venire in contatto con l’entità maligna, ma forse il male era già nel nucleo familiare: le benedizioni di Padre Adamsky (James Olson) fanno il possibile contro l’impossibile.

Damiani esorcizza l’impatto col genere dimostrando da un lato di saper valorizzare con originalità certi stilemi dell’horror classico, dall’altro di saper introdurre persino nel teatrino degli effetti macabri i risvolti di una cronaca tragica, a cui il suo impegno politico aveva spesso mostrato di inclinarsi con spirito critico. Ecco, allora, che dal punto di vista visivo si possono apprezzare, al di là delle metamorfosi demoniache tutte increpate e sbavanti dell’ultima parte, gli stratagemmi di costruzione di uno spazio di fiction claustrofobico: soggettive senza soggetto e costanti riferimenti a pseudo e cripto aperture. Così il padre s’inalbera per la finestra bloccata non appena la famiglia si trasferisce, e la madre, grazie a un operaio del trasloco, scopre un’apertura nella parete, un tunnel che sembra però recalcitrante e farsi esplorare, sicché l’operaio suggerisce di sbarrarlo. O ancora, le porte si aprono e si chiudono da sole, mentre gli specchi s’infrangono, negando anche lo spazio virtuale del riflesso.

Si amplifica, come per implosione, il face to face della famiglia, il cui circuito emotivo morboso e malato fa tutt’uno con l’ambiente che reagisce per onda d’urto interna: ne scaturiscono i fenomeni di poltergeist, come nel film omonimo di Tobe Hooper dello stesso anno, in cui l’infestazione sembra riguardare una famiglia, più che una casa, o comunque trarre alimento dai torbidi. Così anche nel recente The Possession di Ole Bornedal, in cui addirittura la possessione viene liquidata come reazione della figlia minore alla separazione dei genitori, o in Apartment 143 – Emergo di Carlos Torrens, in cui è ancora da una storia di divorzio che scaturisce la ribellione infantile e con essa il fenomeno paranormale. In parte nello stesso Sinister di Scott Derrickson dalla disgregazione nasce la maledizione. Ma bisogna sottolineare come Damiani – ed è questo il tratto forse più originale del film – ripensi questo connubio tra sociologia familiare ed imagerie dell’orrore, che nell’89 Yuzna riproporrà nella cornice della classe borghese col visionario Society, puntando sia sulla rudezza aggressiva di Burt Young (il Paulie di Rocky, citato da un poster nel film), la cui cinghia si fa “di trasmissione” tra violenza fisica e rottura psicologica; sia sull’incesto fraterno – ne si accennerà anche nel film di Yuzna, con altra direzione – tra seduttore impossessato e sorellina Lolita.

A conferma di come Damiani ribadisca, nel diverso contesto dell’horror, i tratti caratterizzanti del suo impegno civile, la figura del reverendo interpretata da James Olson diventa il nodo, davvero sorprendente nel genere, di una rete burocratica e di potere ecclesiastico che si neutralizza solo con uno sforzo di libertà di coscienza contro l’Istituzione della Chiesa. A Padre Adamsky viene impedito di effettuare l’esorcismo, eppure con ostinazione s’immischia nelle faccende della famiglia. Damiani, “specialista” di film su giustizia e magistratura, non si fa mancare nemmeno una scena in tribunale, in cui l’avvocato difensore cerca di confutare la colpevolezza del suo assistito dimostrandone la possessione demoniaca. Il fatto soprannaturale, cioè, è stato riportato alla dimensione umanissima di un’esistenza inviluppata in procedure, ordini ed ordinanze. Ma è una burocrazia – ed anche questo è un tratto tipico del cinema del regista – che richiama a scelte di coscienza, ad abbattere l’omertà e a non essere né ominicchi ne quaquaraqua.

Che il male, infine, s’inietti nello stesso prete, è indice di una posizione problematica, quasi miltoniana, in cui dietro la ribellione al potere rischia di comparire la vanità del titano, a mo’ di Keanu Reeves ne L’avvocato del diavolo: Lucifero, d’altronde, era un angelo ribelle. “Tu vuoi comandare come il vescovo”, dice l’impossessato a padre Adamsky durante il rito esorcistico: e questa, forse, è la frase emblematica di un cerimoniale cinematografico che, partito dall’orrenda claustrofobia di cliché, diventa esorcismo della società tutta, dei suoi meccanismi di potere stritolanti, delle sue coscienze perennemente al bivio bene/male. La disgregazione familiare diventa disgregazione del viso di Sonny, che da ribelle positivo al padre è diventato ribelle negativo: così come il prete, che comincia a vedere le pustole sul proprio corpo. Alla faccia, anzi, in faccia a chi liquida l’horror come genere degli effettacci, Damiani ne fa il genere dei “fattacci” di cronaca, familiare e sociale.

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Scritto da Antonio Maiorino.