AltrodiBlogger Erranti,19 Marzo 2013
Foxygen – We are the 21st century ambassadors of peace and magic: la recensione
I Foxygen – gruppo californiano fondato nel 2011 da Sam France e Jonathan Rado – rischiano seriamente di diventare la nuova e chiaccherata “cosa” psichedelica di questo inizio 2013. Dalle lodi sperticate di Pitchfork a quelle di altre testate web e non, fino alle incomprensibili – a parer di chi scrive – critiche di casa nostra, costituisce la seconda uscita del duo, dopo l’ep d’esordio Take the children off Broadway uscito lo scorso anno.
Lavoro molto solido e a fuoco nonostante la giovane età degli autori, entrambi poco più che ventenni, We are… è pura gioia dei sensi con quella sua ricetta a base di good vibrations, estate dell’amore e ascolti giusti. Ascolti che partono, è inutile dirlo, dalla vena psych dei Beatles e soprattutto dei primi Pink Floyd, quelli con ancora Barrett al timone, ed arrivano a monumenti dei nostri nineties come Brian Jonestown Massacre, Pavement e Belle and Sebastian.
Un frullato di influenze indubbiamente ben dosate, in grado di accompagnare oziose giornate primaverili, sognando di essere all’occupazione dell’università di Berkeley come pure alla guida di una spider Alfa Romeo sulle strade californiane.
Inserisci il disco nel lettore e alle prime note di In the darkness vieni subito catapultato in un altro mondo…o forse è l’immagine pseudo-vintage ottenuta via Instagram, ma che importa, non possiamo fare a meno di goderne.
Non c’è tempo per fregarsi le mani che parte No destruction, ossia Lou Reed che incide dischi coi summenzionati Pavement anziché coi Velvet Underground, e la cosa funziona divinamente peraltro. On blue mountain è invece pezzo più acido e “storto”, che nel refrain cita Suspicious minds di Elvis Presley, come la cantarebbe però un Pete Doherty strafatto di Lsd anziché di eroina.
Tre pezzi e tre potenziali colpi da ko. Che arriva prontamente al quarto brano: San Francisco, a parte il titolo programmatico che meriterebbe un trattato di sociologia musicale, incarna la perfezione del pezzo pop in 3 minuti e 47 secondi. Immaginate quindi un Syd Barrett che prende un aereo alla volta della Baia in compagnia di Stuart Murdoch e soci per suonare alla festa di fine anno della scuola. Il cantato è caracollante al punto giusto e nel ritornello si libra un call-and-response tra voce maschile e femminile che appare adorabilmente naif.
Proseguendo, in Shuggie risultano ancora evidenti gli echi brit dei tardi sessanta, laddove in Oh yeah fa capolino pure Marc Bolan in versione tropicalista. Prima della chiusura c’è ancora tempo per il blues malato in odor di Cramps ravvisato nella title track così come per la più beatlesiana del lotto Oh no.
Mero revivalismo diranno alcuni. Certo. Eppure non si disdegna un salto nel passato se si dispone di una delle migliori Delorean sulla piazza.
Scritto da Fabio Plodari.
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