Magnifica Presenza: la recensione
Il binomio Magnifica presenza è un’equazione tra regista e protagonista: inequivocabilmente presente è la mano di Ferzan Özpetek, ma la magnificenza è in buona parte merito della meta-performance di Elio Germano, che bilancia l’occhio autocompiaciuto della cinepresa con un’ennesima dimostrazione di versatilità. Certo, ad una prima occhiata la trama pare essere cucita su misura per il suo perpetuo funambolismo fra l’essere icona (quasi) involontaria e il voler restare “uno de noantri”, fra i solitari castelli in aria del suo personaggio e la voglia di dare tutto se stesso in una perfetta mise en abyme attoriale. A ben guardare, però, il racconto è stato invece confezionato per accogliere la sfilata 2012 dei temi cari al regista turco, indubbiamente sempre attuali, ma qui privi di innovazione sartoriale. Se i cartamodelli originari acquistano tridimensionalità e una texture attraente, lo si deve principalmente al talento poliedrico di Germano.
La pellicola vanta comunque pregi narrativi e soprattutto estetici, che giustificano in parte i numerosi riconoscimenti (tra cui Ciak D’Oro, Nastri d’Argento e nomination per il David di Donatello). Il punto di partenza è un interessante rovesciamento di prospettiva del classico tema della casa infestata dai fantasmi: Pietro, siculo aspirante attore che sbarca il lunario infornando cornetti nella capitale, affitta un appartamento nel quartiere storico di Monteverde per affrancarsi finalmente dall’affettuosa ma ingombrante cugina Maria (Paola Minaccioni, volto noto ai fan di Özpetek, ma anche al pubblico televisivo di Un Medico in Famiglia). Gli intoppi iniziali rivisitano i tipici presagi del filone thriller-horror, di cui però la pellicola non conserva alcuna traccia, a dispetto della campagna pubblicitaria. La casa non è abitata da women in black assetate di vendetta, bensì da una compagnia teatrale al gran completo (con fior di interpreti: Beppe Fiorello, Margherita Buy e Vittoria Puccini, tra gli altri). La ciurma, scomparsa misteriosamente nel 1943, ma più che mai presente fra le quattro mura, sarebbe ben contenta di levare le tende, ma risulta “inspiegabilmente” vincolata all’appartamento.
Özpetek cala subito la carta pirandelliana della sovrapposizione tra il piano del reale e quello fictional, con il mantra “Finzione! Finzione! Ma quale finzione, realtà!”, direttamente da Sei Personaggi in Cerca d’Autore. Che si dia o meno un valore autoironico a questa chiave di lettura, volutamente sciorinata, il “mistero” che spiega la fusione delle due dimensioni è la parte più deludente della pellicola: l’unfinished business che imprigiona la compagnia Apollonio, già minato da una forzata citazione del Diario di Anna Frank, viene sprecato con una risoluzione prevedibile che ha come unico pregio il portare sullo schermo una carismatica Anna Proclemer, la cui espressività compensa battute scontate e tempi scenici inadeguati. La dimensione corale penalizza, inoltre, il resto del cast: gli incorporei teatranti faticano a trasmettere pathos; funzionano bene come coro, appunto, ma non riescono a trascinare lo spettatore nel profondo del loro dramma.
Ben diverso è il discorso per Pietro, di cui è facile condividere incertezze ed emozioni. Impeccabile nella resa del siciliano romanizzato ma non troppo, Germano dà il meglio di sé nel vano tentativo di camuffare le proprie manie ossessivo-compulsive e nella ricomposizione del rapporto fra emozioni e recitazione nella pregevole scena meta-attoriale. Viene naturale convenire tacitamente con Pietro che allontanarsi dalla cugina sia la conditio sine qua non per cominciare a costruirsi una propria identità; si crede davvero che l’ascesa al palcoscenico sia imminente, e ci si strugge con lui in attesa di un segno di vita dall’idolatrato Massimo (Giorgio Marchesi). La breve apparizione di quest’ultimo mostrerà però che l’osmosi tra reale e immaginario è già in atto da tempo nella mente di Pietro, che finirà per cercare la verità sulla compagnia Apollonio nel variopinto sottosuolo capitolino. Destabilizzante il cameo di Platinette, drag-Badessa a capo di una sartoria trans dipinta in toni infernali, che stridono però con lo sfondo di una Roma quanto mai asettica, animata unicamente dagli occhi dei fantasmi.
Fortunatamente la cura estetica di Özpetek (e dello scenografo Andrea Crisante) si ritrova negli interni spettacolari, velati dalla patina austera e sontuosa dell’eleganza d’altri tempi, e nei ricchi costumi di scena. Dispiace però che la poetica visiva, così efficace nel creare atmosfera, finisca per trasformarsi in una cornice poco aderente al contenuto, e che la forza acquisita dal protagonista attraverso il legame con i fantasmi non sia sfruttata adeguatamente. Özpetek finisce per crogiolarsi nei propri stilemi, che ripropone senza però svilupparne l’aspetto più pregnante: la tematica omosessuale, innegabilmente fondante nella filmografia del regista turco, viene qui in realtà rarefatta attraverso i potenziali oggetti d’interesse di Pietro, evanescenti anche quando non ectoplasmatici.
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Edoardo P. | ||
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