AltrodiBlogger Erranti,8 Febbraio 2012
The Black Keys – El Camino: la recensione
The Black Keys, El Camino. Akron non è solo la città che ha dato i natali a Lebron James (per chi ne è tifoso) o la capitale mondiale della gomma (per tutti gli altri); è da lì che vengono Dan Auerbach e Patrick Carney.
Due che, nonostante l’ascesa allo stardom indie, hanno saputo mantenere vivo il sacro fuoco del rock’n’n’roll e porsi sulla scia degli White Stripes, venendo infine eletti campioni incontrastati del genere dopo lo scioglimento di quest’ultimi. Due insomma che finivano per picchiarsi al parco giochi a causa di una donna, imitando -anziché separare- i rispettivi figlioletti; ok era solo un (geniale) video ma tant’è…
Se i Nostri sono diventati uno dei gruppi più celebrati degli ultimi anni lo devono però anche alla confermata collaborazione col produttore/re Mida Danger Mouse (Gorillaz, Gnarls Barkley), in grado di affinare una formula vecchia di qualche decennio. El Camino, omaggio ad un furgoncino venduto negli States negli anni 60, si ascolta così tutto d’un fiato, tirato com’è e con pochi fronzoli, siccome in questo caso si va dritti al sodo e (ci) si vuole divertire.
Non per niente l’album è stato composto on the road durante le pause del precedente tour e risulta più breve e meno vario rispetto al precedente Brothers; a farla da padrone sono certe sonorità hard-blues espletate con convinto piglio garage, mentre le aperture soul del recente passato vengono sacrificate a favore di una maggior immediatezza.
L’inizio è subito pirotecnico col singolo sbanca classifiche (alternative) Lonely Boy: riff micidiale e appiccicaticcio, con un altro grande video a supporto che conferma l’impossibilità di stare fermi su un groove siffatto. Sullo stesso piano si colloca una Gold on the Ceiling capace di scuotere nuovamente il ventenne-capello lungo-barba incolta mentre Little black submarines omaggia doppiamente gli Zeppelin: dall’inizio bucolico con squarci sulla gaelica Bron-Yr-Aur si passa poi ad un andamento vagamente Stairway to heaven. La funkeggiante Sister, il power-pop di Nova baby e il finale di Mind Eraser ribadiscono invece ancora una volta come i Black Keys siano ormai totalmente consapevoli dei loro mezzi.
Tutto interessante, anche se un dubbio in fondo si insinua. L’album suona a volte un po’ troppo come una versione cool degli ZZ Top, assolutamente godibile certo, ma probabilmente un passo indietro rispetto all’ottimo predecessore.
Scritto da Fabio Plodari.
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