Midsommar: recensione
Eccellente seconda prova horror di Ari Aster dopo Hereditary
Midsommar è il secondo lungometraggio di Ari Aster, uno dei registi più stimolanti del panorama horror contemporaneo. Amato e odiato per le sue peculiarità, Aster scrive e dirige film art-house in cui l’orrore si mescola al dramma familiare, come già riscontrato in Hereditary e nei suoi micidiali cortometraggi. Midsommar riesce nell’arduo compito di eguagliare il suo film d’esordio, riprendedone alcune caratteristiche e trasportandole dentro al sottogenere folk horror.
Dentro al folk horror – Midsommar: recensione
Tra gli elementi ricorrenti del folk horror si incontrano: l’arrivo di uno o più stranieri in una terra e/o società isolata; la presenza di una setta; l’immersione in un paesaggio non urbano (foresta, deserto, montagna, isola, palude, villaggio); la venerazione di divinità che possono manifestarsi o meno; la rappresentazione dei relativi rituali, che spesso sfociano nel sacrificio umano. I protagonisti di solito sono i personaggi che arrivano dall’esterno, da un mondo ordinario che idealmente corrisponde a quello del pubblico.
L’esempio più classico – nonché una delle pietre miliari del genere – è The Wicker Man, film britannico del 1973 che esercita una grande influenza su quello di Aster. Nel cinema più recente, il folk horror si ritaglia una nicchia art-house con titoli notevoli – tra cui Kill List (2011), The VVitch (2015) e The Endless (2017) – che ne reintepretano i canoni con originalità. Aster sceglie una strada solo in apparenza più aderente al format classico, con risultati altrettanto interessanti.
La vicenda di Midsommar è semplicissima, eppure il film è più complicato di quel che sembra. Una coppia in crisi fa un viaggio nella campagna svedese, ospite di una comunità che festeggia il solstizio d’estate. Conosciamo il format, sappiamo cosa aspettarci, tant’è che Aster punteggia l’intero film di anticipazioni. Essendo la situazione narrata in Midsommar uno dei tropi più classici del cinema d’orrore, il suo punto non è stupire con degli improbabili colpi di scena, ma condurci dentro al proprio mondo attraverso un punto di vista speciale. Come ha correttamente detto lo stesso regista, tutto va come ci aspettiamo, ma la sorpresa è la sensazione che si prova.
Questo effetto è ottenuto grazie alla prospettiva della protagonista Dani, interpretata da una Florence Pugh in ottima forma, o meglio, in grado di apparire devastata come il suo personaggio richiede. Ma per parlarne con precisione, è necessario allertarvi del fatto che seguiranno SPOILER sulla trama.
SPOILER ALERT – Midsommar: recensione
Lutto, dolore e solitudine – Midsommar: recensione
Nelle sue premesse, Midsommar è una storia che parla di lutto, ma in modo differente rispetto a Hereditary. Il nodo fondamentale qui è la solitudine di chi sperimenta la perdita, l’impossibilità di condividerla con gli altri. Le persone che circondano Dani sono fredde e ostili, lei è disconnessa da loro. Dani non ha solo perso i genitori e la sorella nel più orribile dei modi, ma come unica sopravvissuta di un omicidio-suicidio è stata esclusa dal nucleo familiare originario. La violenza e la morte hanno ricreato un’immagine distorta della sua famiglia, un ritratto di cui lei non fa più parte. Il dolore di Dani, protagonista quanto lei, è gigantesco e inimmaginabile. Il suo compagno Christian non è di nessun aiuto, anzi: il loro rapporto si mostra già logoro prima della tragedia. Christian opera continue manipolazioni su Dani, che le accetta passivamente terrorizzata all’idea dell’abbandono, secondo la più ordinaria dinamica dell’abuso che si possa vivere senza arrivare alla violenza fisica.
Il primo cattivissimo atto del film crea le basi perché il viaggio della protagonista assuma il significato che rivelerà alla fine. Lo stile ricalca quello di Hereditary, con dialoghi raggelanti intrisi di frustrazione e un senso di tragedia incombente che puntualmente si verifica. Tutta la storia è sorretta dalla natura maligna della relazione tra Dani e Christian, perché il vero nucleo di Midsommar riguarda il bisogno di Dani di far parte di una comunità, trovando una connessione con altri esseri – condizione che le è preclusa dal suo intrappolamento di coppia in un mondo di gaslighting e anaffettività, che si ribalta nel momento in cui Dani entra in contatto con la setta degli Hårga.
Le svolte fondamentali del film sono dove devono essere: nel suo midpoint, in cui assistiamo al primo sacrificio umano, e nella sua conseguenza, ovvero spingere Dani verso l’elaborazione del lutto – anziché farla scappare, la rivelazione della violenza nei rituali Hårga ha un effetto catartico. Ma il passaggio decisivo di Midsommar arriva dopo l’incoronazione di Dani come May Queen, quando la protagonista sperimenta l’appartenenza alla comunità attraverso il corpo e il movimento. Quando un’intera tavolata inizia a mangiare guidata dai gesti della May Queen, Dani per la prima volta sente di far parte di qualcosa di più esteso del sé, di un organismo collettivo fatto di connessioni umane.
L’esperienza si ripete in modo decisivo poco dopo, quando in un momento di sofferenza le altre donne replicano le sue grida, sobbarcandosi la sua disperazione. Dani scopre che quel suo dolore annichilente non funziona allo stesso modo dentro alla comunità degli Hårga. Lì nessuno è mai solo, ogni esperienza è condivisa. È così che la protagonista arriva al rogo finale, in cui non sta solo guardando il suo fidanzato bruciare, ma un intero stile di vita, una visione del mondo in cui gli individui sono condannati a una solitudine eterna.
Chi è cattivo – Midsommar: recensione
Il punto di arrivo di Midsommar è che questa nuova condizione vale bene qualche sacrificio umano, specialmente se l’offerta finale, consegnata dalla stessa Dani, è il suo pessimo fidanzato Christian. Questo snodo conclusivo funziona soprattutto perché il vero cattivo del film è proprio lui, Christian, dato piuttosto originale in un folk horror: nonostante tutto, gli Hårga non sono il vero nemico. Osserviamo come funziona il personaggio di Pelle, rappresentate della setta, colui che porta gli americani in Svezia per sacrificarli. Nonostante il suo piano diabolico, Pelle non risulta mai essere un villain tout court, perché noi seguiamo la storia dal punto di vista di Dani e non degli altri personaggi che ne diventano le vittime. Dani è talmente persa nel suo universo di dolore che per lei è irrilevante la manipolazione di Pelle, che, nonostante tutto, assume la funzione di aiutante della protagonista, accogliendola in un percorso di emancipazione.
Nelle sue dinamiche, Midsommar riesce a essere un horror pieno di simboli ma con poche metafore. Quello che succede a Dani è letterale, non figurativo: le urla delle altre donne la sollevano davvero dal peso del suo dolore; sacrificare il fidanzato agli dei è una vera e propria liberazione; in futuro, la possiamo immaginare integrata nella comunità degli Hårga. La condizione di Dani non ha bisogno di essere metaforica perché racconta un’esperienza universale. Il film non è femminista perché non è una critica del patriarcato, ma non è nemmeno un caso che la protagonista sia una ragazza: quella condizione di isolamento e subalternità può viverla chiunque, ma è più diffusa tra le donne.
L’art-house horror è horror– Midsommar: recensione
Stilisticamente ineccepibile, Midsommar appartiene a quel sottofilone in cui la grande cura artistica del progetto è un elemento fondamentale, attirandosi così le antipatie di chi vede questo approccio come una forma di snobismo verso il genere. Ma Midsommar deve essere così come si presenta: immersivo, colorato, fotografato per renderne l’aspetto fiabesco. E poi, carico di pitture che riprendono il folklore svedese, coi dipinti di Mu Pan e Ragnar Persson, dispositivi di memoria storica della comunità, nella vicenda, e mezzi di anticipazione di un intreccio inesorabile. Midsommar sfrutta al massimo la solennità dei rituali che rappresenta, che non sono un semplice corollario ma parte integrante delle svolte di trama. La colonna sonora di Bobby Krlic, aka The Haxan Cloak, evita il suono folk nella sua elettronica sperimentale, integrandosi nella messa in scena senza smanie di protagonismo.
Nel folk horror, come ben spiegato in questo approfondimento, è importantissimo l’uso del paesaggio per la definizione di un’estetica specifica, che porta i film fuori dagli studio e isola i personaggi e soprattutto le comunità che incontrano. Il paesaggio rurale di Midsommar non è pura bellezza visuale fine a se stessa, ma è anche un paesaggio sociologico. Riceve l’attenzione che merita attraverso il compartimento artistico, perché tutto contribuisce a generare l’atmosfera desiderata. Il risultato è ipnotico, coinvolgente e pienamente horror.
Sara M. | ||
8½ |