American Crime Story – The Assassination of Gianni Versace: recensione
Thriller dell'omofobia di Ryan Murphy, ora su Netflix
American Crime Story è una serie antologica creata da Ryan Murphy per raccontare l’impatto di alcune vicende criminali sulla società americana. Dopo una prima stagione in cui il processo a O. J. Simpson diventa un legal drama corale, la serie prende una strada diversa con The Assassination of Gianni Versace. «È il mio lavoro più personale» ha detto Murphy, spiegando come sviluppare questa stagione sia stata per lui una forma di attivismo. Si tratta infatti di un thriller angosciante e orrifico, non solo per la descrizione della violenza del serial killer Andrew Cunanan, ma anche della pervasività dell’omofobia. Sono due aspetti indissolubili in uno show sorprendentemente a suo agio con la costruzione di un protagonista psicopatico, capace di schivare le maggiori trappole che l’operazione comporterebbe.
La struttura della serie – The Assassination of Gianni Versace: recensione
La stagione è un romanzo di deformazione e un viaggio attraverso gli Stati Uniti, ed è più truce della precedente. Entrambe sono corali, ma The Assassination of Gianni Versace fa emergere un protagonista univoco, che non è Gianni Versace, ma il suo assassino, Andrew Cunanan. La scrittura di tutti gli episodi è affidata all’autore inglese Tom Rob Smith, che aveva già all’attivo la notevole miniserie London Spy. Come la stagione precedente, anche la seconda è basata su un libro, scritto da Maureen Orth. La tecnica è sempre la stessa: la ricostruzione minuziosa di alcuni fatti; piccoli aggiustamenti di altri; e il riempimento degli spazi vuoti della storia con avvenimenti immaginati dagli autori, in coerenza con lo scopo drammatico della serie. Ogni episodio finisce con un cartello che dichiara con onestà la coesistenza dei fatti modificati assieme a quelli verificabili.
È una narrazione fatta di flashback incrociati, tutta basata sul meccanismo dell’anticipazione. La struttura è complicata, forse troppo, ma non inutilmente. Le intenzioni non sono le stesse di uno show come Westworld, in cui il groviglio delle timeline è volutamente ambiguo perché parte del divertimento starà poi nel decifrarle. The Assassination of Gianni Versace ha una struttura complicata perché questa le dà l’opportunità di mostrare i fatti sempre sotto nuove angolazioni. Inizia dalla rappresentazione più ovvia e superficiale – la follia e la ferocia del killer nei primi 3 episodi – per poi scandagliarne la psicologia. Perché Andrew Cunanan è uno psicopatico, ma questo non gli impedisce di essere un personaggio con delle motivazioni; ed è proprio su queste che la serie si interroga.
Raccontare il serial killer – The Assassination of Gianni Versace: recensione
È difficoltoso rendere protagonista un personaggio come Cunanan e non cadere nella trappola di romanticizzarlo. Il rischio è concreto, perché Andrew nello show è una specie di Tom Ripley. Giovane di bell’aspetto (esagerato grazie alle sembianze di Darren Criss), gay, intelligente e beneducato; ma anche mitomane, inventore di autobiografie consolatorie e sfarzose, che lo vedono ricco e realizzato: è chiaro il paragone col personaggio creato da Patricia Highsmith – e soprattutto col suo alter ego cinematografico degli anni ’90.
Murphy e Smith ne vengono a capo bilanciando il corposo racconto su Cunanan con gli incisivi ritratti degli uomini che ha ucciso, a cui sono dedicati interi episodi da protagonisti. Il cuore pulsante della stagione è nel trittico composto da A Random Killing (2×03), House by the Lake (2×04) e Don’t Ask Don’t Tell (2×05), picco dello show incentrato non su Cunanan, ma sulla violenza omofoba dell’esercito americano, subita da uno dei protagonisti. Sono episodi necessari ma dolorosi da guardare, in virtù della narrazione al contrario che ci mette nella posizione di provare maggiore angoscia e pena per i personaggi in scena, di cui conosciamo le inevitabili sorti. Imbastita in questo modo, l’operazione riesce a rendere giustizia a tutte le vittime di Cunanan: le parti immaginarie suppongono cosa possa essere accaduto nelle ultime ore e giorni delle persone uccise, tirando fuori da ciascuno di loro un lato eroico.
Il racconto all’indietro non serve però soltanto a creare suspense. La sua funzione nel disegno dell’intera stagione è quella di mostrare Cunanan prima come spietato maniaco, per poi riempire il suo ritratto in bianco e nero di sfumature. Queste non lo rendono meno feroce, ma più comprensibile. La chiave è l’omofobia: quella subita dai tutti i personaggi, dalle vittime e dal loro carnefice; quella che discrimina il compagno, ormai vedovo, di Versace; quella che impedisce alla polizia di condurre un’indagine adeguata, proprio perché vittime e assassino sono omosessuali; quella internalizzata, soprattutto dalle vittime, che ne avvelena l’esistenza. Nei suoi momenti più mostruosi, Cunanan di questa omofobia diventa l’incarnazione, un incubo gay punitivo e spietato.
Alla fine dello show, una componente di romanticizzazione del killer c’è effettivamente stata: l’Andrew Cunanan impersonato da Darren Criss è un personaggio indimenticabile. Ha una somiglianza con quello positivo ed eroico interpretato da Ben Whishaw nell’eccellente miniserie A Very English Scandal. Entrambi sono caratterizzati dall’essere unapologetically gay: sono descritti come uomini coraggiosi, che non si nascondono mai, anche se ciò rende le loro vite più difficili. Curiosamente, ai Golden Globe del 2019, definiti i più queer di sempre, un premio è stato portato a casa sia da Whishaw, sia da Criss, e The Assassination of Gianni Versace ha vinto come miglior limited series: Murphy ha dato l’ennesima prova di essere una delle personalità più forti della tv contemporanea.
Sara M. | ||
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