Animali fantastici – I crimini di Grindelwald: recensione
Perfezione estetica e perplessità narrative nel secondo capitolo della saga
Animali fantastici – I crimini di Grindelwald, secondo dei cinque film dedicati al magizoologo Newt Scamander e sceneggiati da J.K. Rowling, colpisce gli spettatori con un potentissimo Incantesimo Confundus. Se da un lato la pellicola risulta tecnicamente ineccepibile, di enorme impatto visivo e di atmosfera, come da tradizione, dall’altro la storia risente dei numerosi tagli, dolorosamente evidenti, e solleva non poche perplessità con i reiterati depistaggi diegetici e le incongruenze (crono)logiche inconciliabili con l’abituale precisione rowlinghiana.
Animali fantastici – I crimini di Grindelwald abbandona il contesto newyorkese del primo capitolo per tornare nel vecchio continente: nella spettacolare sequenza di apertura, l’eponimo mago oscuro (Johnny Depp) prende il controllo della carrozza che doveva portarlo in manette al tribunale londinese e si reca sì in Europa, come previsto, ma per radunare i suoi Accoliti e scatenare la guerra per la supremazia dei maghi sul mondo babbano (o No-Mag, nello slang nordamericano). Nel frattempo anche tutti i protagonisti del primo film si trovano in terre europee: Newt (Eddie Redmayne) è rientrato a Londra e ha pubblicato il libro che dà il titolo alla saga, Tina (Katherine Waterston) è a Parigi per conto del MACUSA e Jacob (Dan Fogler) e Queenie (Alison Sudol) vanno a cercarla, coinvolgendo il magizoologo.
A catalizzare le forze magiche verso la capitale francese è la presenza di Credence Barebone (un Ezra Miller sempre più straordinario); l’obscuriale, creduto morto alla fine del primo film, in realtà si è recato a Parigi per scoprire le proprie origini. Lavora presso l’inquietante Circus Arcanus e si è legato all’attrazione principale del freak show, il Maledictus (Claudia Kim), una donna colpita da una maledizione che la costringe a trasformarsi in serpente finché lo stato animale non diverrà irreversibile. Sulle tracce di Credence ci sono non soltanto Tina, reintegrata come Auror, ma anche Grindelwald e Newt stesso, per conto del giovane Albus Silente (Jude Law), nonché lo spietato Auror Grimmson, inviato dal Ministero della Magia britannico, e il mago francese di origini africane Yusuf Kama.
La convergenza parigina comprende anche Theseus Scamander (Callum Turner), fratello maggiore di Newt e Capo dell’Ufficio degli Auror del Ministero della Magia (il corrispettivo di Percy Weasley nel Newtverso); la tormentata fidanzata Leta Lestrange (Zoë Kravitz); e il leggendario alchimista seicentenario Nicolas Flamel (Brontis Jodorowsky), noto ai fan per l’invenzione della pietra filosofale che dà il titolo al primo volume di Harry Potter. Fra poco convincenti battibecchi amorosi e complicati intrecci genealogici minati dai ripetuti cambi di rotta si innesta un’escalation politica ben più efficace: l’ascesa di Grindelwald, con evidenti (e riusciti) parallelismi anche estetici con la coeva espansione del nazifascismo nella storia europea reale, porta al climax dell’adunata nell’anfiteatro nascosto sotto il cimitero di Père-Lachaise.
La tensione narrativa risulta però compromessa dal malriuscito tentativo di imbrigliare l’immaginazione della Rowling, meravigliosamente ipertrofica, ma di per sé più adatta alla dimensione senza confini del romanzo, in una struttura squilibrata fra i vari atti e penalizzata da tagli inopportuni e conseguenti spiegoni di recupero. Se la regia di David Yates aveva già fatto storcere il naso in passato, stupisce invece che l’autrice, pur data la necessità di sforbiciate per raggiungere un minutaggio accetabile, abbia permesso interventi così macroscopici (la parabola monca di Queenie o l’inconsistente rappresentazione del passato di Silente) e inserito incongruenze lontanissime dalla capacità di mappatura quasi inappuntabile dimostrata con il Potterverso.
Una certa dose di fan service era prevedibile e gradita (d’obbligo la tappa a Hogwarts, occasione per scoprire Joshua Shea, perfetto nei panni del giovane Newt), ma i collegamenti con i personaggi potteriani risultano spesso forzati e anacronistici. In un caso si può forse ipotizzare l’uso di un Giratempo, che risulta comunque sprecato per una mera strizzata d’occhio ai fan, ma la catena di colpi di scena potrà essere spiegata solo con un nuovo ribaltamento nei capitoli successivi. Anche accettando che questa sia una pellicola di transizione, come comprensibile, occorre comunque considerare la distanza di due anni tra le uscite cinematografiche, che rende ancora meno convincente il movimento a zig-zag con l’improbabile cliffhanger finale.
Non sarebbe tuttavia corretto sottolineare soltanto i lati negativi, che spiccano proprio perché il film rimane fedele alla lunga tradizione di allestimenti spettacolari e atmosfere in grado di incantare letteralmente gli spettatori (dicotomia che per certi versi ricorda la seconda trilogia di Star Wars). Il monumentale apparato visivo comprende set costruiti con precisione millimetrica e tocchi magici nuovi, ma sempre coerenti (la nebulosa Londra con la casa-ospedale veterinario di Newt, la Parigi vivace e polifonica che vira verso i toni cupi con l’ascesa della magia oscura); i costumi della pluripremiata Colleen Atwood che evidenziano l’evoluzione dei personaggi; gli effetti speciali che animano le scene più rocambolesche e ovviamente gli animali fantastici (l’immancabile Asticello Pickett, ma anche i neonati Snasetti e il maestoso Kelpie, enorme cavallo marino fatto di alghe). Sommando la perfetta realizzazione visiva alla buona performance della maggior parte degli attori e alla colonna sonora in linea con le aspettative si ottiene comunque una pellicola d’impatto, cosa che accresce il dispiacere per le scelte incongruenti. Resta la speranza di una redenzione narrativa nei capitoli successivi, pur con la consapevolezza che questo secondo episodio non verrà ricordato fra i più riusciti delle due saghe.
Alice C. | ||
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