The Haunting of Hill House – Stagione 1: recensione
L'adattamento di Mike Flanagan per Netflix del romanzo di Shirley Jackson
The Haunting of Hill House è una delle serie Netflix più esplicitamente horror. È creata da Mike Flanagan, regista, sceneggiatore e montatore di alcuni ottimi film dell’orrore di questo decennio, che ha diretto tutti e 10 gli episodi. Liberamente tratta dal romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House, la serie usa il materiale originale campionandolo, senza attenersi alla storia. Non siamo davanti all’adattamento del libro, né a un’espansione del film di Robert Wise del 1963, The Haunting, che era invece una fedele traduzione cinematografica. Libro e film sono citati, le loro atmosfere riprese come evidente ispirazione (saltando a piedi pari il malriuscito adattamento del 1999 di Jan de Bont). La vicenda narrata è quella della famiglia Crain, che si insedia nella maledetta Hill House, finendo per fuggire terrorizzata dalla villa neogotica. La serie alterna quel passato a un presente in cui fratelli e sorelle Crain sono adulti alle prese con le conseguenze di un trauma infantile mai risolto.
L’horror e il dramma familiare in Hill House
La Hill House di Flanagan è basata sulla combinazione di horror puro e dramma familiare, quello di serie come Bloodline o This Is Us, in cui hanno importanza capitale le relazioni tra genitori, figli e fratelli/sorelle (Esquire titolava puntualmente: Netflix’s The Haunting of Hill House Is a Spooky This Is Us). Siamo nel territorio in cui si muove agile Mike Flanagan: le dinamiche familiari, meglio se complicate dal sovrannaturale, sono l’elemento ricorrente di tutto il suo cinema. Ma questo non è un fatto insolito nel cinema d’orrore, specie in quello che parla di fantasmi.
E i fantasmi sono al centro di tutto quello che accade in Hill House. Sono fantasmi stratificati di significati, dal metaforico allo spicciolo; sono portatori di jump scare, ma anche di ansia esistenziale. Sono fantasmi che divorano la vita e la sanità mentale dei protagonisti, manifestandosi fisicamente e poi perseguitandoli attraverso la memoria, minando le loro sicurezze. Sono traumi infantili e lutti insuperabili. Ma sono anche le facce orribili che ti scrutano dagli angoli bui della casa. La serie è infestata da volti e figure che appaiono di sfuggita sullo sfondo, quasi impercettibili. Sono destinati a essere letti dal cervello dello spettatore, che si sentirà a disagio guardando scene all’apparenza innocue, proprio per come Flanagan ha seminato le sue inquadrature di dettagli disturbanti.
Dal punto di vista della grammatica horror, Hill House è ineccepibile. Merita una fruizione appropriata: non ha senso concentrarsi sul cercare gli easter egg che popolano la serie, perché è la nostra percezione inconscia a doverne registrarne la presenza. La visione deve essere immersiva, a luce spenta, senza distrazioni. Una fruizione diversa porta a un’esperienza monca.
Hill House, l’andamento della stagione
Hill House ha una prima metà stagione più forte rispetto alla seconda. I primi 5 episodi incastrano perfettamente racconto autoconclusivo e linea orizzontale, con una scrittura che ricorda Lost. Le vicende personali dei 5 fratelli e sorelle Crain vengono narrate dedicando a ciascuno una puntata. Sono 5 storie di formazione sovrannaturale, in cui il nucleo del racconto è il rapporto che ciascun personaggio ha sviluppato con la morte e con il proprio trauma. Hill House ha dato a ciascuno un diverso spazio nel terrore, e anche all’interno della famiglia, ciascuno è solo a combattere il proprio demone personale. La malevolenza di Hill House rappresenta il male del mondo, di cui i 5 bambini scoprono l’esistenza in un doloroso coming of age che culmina con la presa di coscienza della mortalità.
L’episodio migliore della stagione è l’1×05, The Bent-Neck Lady, sia per le proprie qualità, sia per come è stato posizionato nel punto centrale della storia, dove acquisisce maggiore significato. È anche uno spartiacque che crea due tempi nella stagione. Fino a quel punto, i singoli episodi hanno una dignità antologica. L’episodio 5 chiude questa parte con un picco sia sul versante horror, sia su quello drammatico. Il climax è stato ben costruito con l’andamento di questo “primo tempo” stagionale: mentre i primi 3 episodi presentano personaggi ancora aggrappati a una realtà confortante, i 2 successivi sono centrati invece sui ragazzi perduti, Luke e Nell. Con loro si alza la posta in gioco, l’orrore dell’infanzia dilaga ovunque nelle loro vite adulte, in una spirale discendente. Nell’episodio 5, scritto da Meredith Averill (proveniente dalla writers’ room di The Good Wife), la storia di Nell porta a compimento il lugubre coming of age sovrannaturale, con una conclusione amarissima.
La seconda metà della stagione cambia tono, diventando più orizzontale e perdendo l’intensità data dagli episodi centrici. Rimangono comunque alcuni momenti molto buoni: l’1×06, Two Storms, virtuoso collage di piani sequenza, che segna la svolta verso il racconto corale; e il secondo episodio firmato da Averill, l’1×09 Screaming Meemies, complementare all’1×05 e più in generale alla prima metà della stagione.
In questa seconda metà emergono alcuni punti deboli di una serie altrimenti perfetta. Uno di questi è l’ostinazione con cui si evita di parlare della storia della casa, quando essa è un personaggio a tutti gli effetti e come tale meritevole di una backstory – è intuibile che questa parte possa essere stata trattenuta per una seconda stagione, ma in questo modo l’arco complessivo è rimasto incompleto. Gli episodi più corali rallentano eccessivamente un ritmo fin lì tesissimo, senza aggiungere molto.
Il finale purtroppo non è all’altezza del resto della stagione: troppo sbrigativo, ripercorre tropi tipici del racconto di fantasmi, ma non con la stessa mano felice di altri episodi. SPOILER ALERT C’è una sottotrama (quella dell’ “amica immaginaria” Abigail) che arriva a convergere con la principale creando un effetto sorpresa; ma è mal gestita la sua risoluzione, meccanica e forzata al punto da incrinare la sospensione dell’incredulità davanti alle reazioni dei personaggi, che paiono guidate col pilota automatico. Allo stesso modo, non è risolto in modo elegante l’arco della diva gotica Liv, la madre, che nella sua dimensione fantasmatica abbandona troppo rapidamente rapidamente ambiguità e antagonismi per trasformarsi in aiutante dei nostri eroi. Insomma, sembra un finale dove troppe cose accadono solo perché devono accadere.
La figura materna in Hill House
Uno degli aspetti più interessanti dello show è proprio la figura della madre Liv, splendidamente incarnata da Carla Gugino. Flanagan aspetta volutamente quasi fino alla fine della stagione per presentarcela in una puntata centrica. Si crea così una grande attesa per il racconto dell’esperienza Hill House attraverso il suo punto di vista. Nei ricordi e nelle visioni dei suoi figli adulti, Liv è un personaggio multicolore e contraddittorio: amorevole, coi piedi per terra, sensitiva, nevrotica, pericolosa. Nel presente la sua figura è un richiamo di morte. L’episodio 9 svela finalmente i suoi segreti, rivelandosi la scatola nera dell’intera stagione. C’è una porta rossa che rimane chiusa per 8 puntate. Quando si apre, al suo interno non possono esserci mostri convenzionali. Quello che ci troviamo è la paura di qualsiasi genitore: che la prole venga risucchiata da un mondo cannibale e selvaggio; e la consapevolezza di avere messo al mondo un essere che comincia a morire nel momento stesso in cui prende vita. A causa di questo terrore, la madre Liv si trasforma nella rilettura femminile dell’archetipo del padre-orco Jack Torrance di Shining, con una delle intuizioni più azzeccate dell’intera stagione.
The Haunting of Hill House nel bene e nel male
Non abbiamo i dati di Netflix, che non li divulga, ma stando alle reazioni social sembra evidente che Hill House abbia avuto un buon riscontro col pubblico. Come accade sempre quando il passaparola viralizza una serie tv, non mancano commenti tranchant che ne esaltano solo gli aspetti meno riusciti. Ma Hill House è una serie meritevole, coi suoi difetti – come pressoché ogni show, dai più osannati ai più infimi –, che non è però rovinato da questi nel suo complesso. Ha un impianto horror validissimo e rappresentativo del presente del genere, coi suoi spaventi che vengono dalla penombra, che hanno caratterizzato questo decennio. Il cast è eccellente, iconico sul versante femminile: non solo Carla Gugino, ma anche Kate Siegel (Hush, Oculus), Elizabeth Reaser (Easy, The Good Wife) e Annabeth Gish (Monica Reyes in X-Files). Ma soprattutto, il suo orrore viene dal narrare la tremenda vita degli adulti: questioni irrisolte, traumi, dolore, perdita, tutto riemerge in formato fantasma, minando il presente raziocinante. Da un lato l’horror con la sua grammatica, dall’altro il perché questa storia deve essere raccontata proprio così.
Sara M. | ||
7½ |