FestivaldiBlogger Erranti,8 Settembre 2018
Venezia 75 – Zan – Killing e Friedkin Uncut: recensione
L'approccio di Shinya Tsukamoto al chambara e il film su William Friedkin
Vi interessa la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ma non potete essere al Lido? Cinema Errante vi propone i Diari da Venezia 75, con i film visti in anteprima per voi.
Zan – Killing di Shinya Tsukamoto
Zan – Killing segna il ritorno in concorso a Venezia, quattro anni dopo Nobi (Fires on a Plain), di Shinya Tsukamoto, che declina a un altro teatro di guerra storico le tematiche a lui care della perdita di umanità e della discesa nella follia di cui sono vittime gli individui in condizioni estreme. Là dove, in Nobi, c’erano le isole del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale, devastate dalle armi da fuoco e dalle uccisioni di massa, qui c’è il Giappone del XIX secolo, in cui dopo 250 anni di pace soffiano venti di guerra civile e i samurai divenuti ronin affilano le proprie spade nella speranza di ottenere un ingaggio. Protagonista della vicenda è il giovane ronin Mokunoshin Tsuzuki, che si allena in attesa di esprimere le proprie abilità sul campo di battaglia, vivendo nel frattempo presso una famiglia di contadini. L’incontro con un ronin più anziano in cerca di reclute e l’arrivo di una banda di fuorilegge lo mettono di fronte alla reale difficoltà che comporta l’atto di uccidere. Fin dalle prime inquadrature, che riprendono in primissimo piano la forgiatura di una katana, di cui si percepiscono il calore e il clangore, e le mani tremanti che la impugnano, Tsukamoto ci restituisce attraverso la travolgente potenza visiva e sonora del suo cinema il senso di inquietudine, inadeguatezza e frustrazione del suo protagonista, quasi un obiettore di coscienza fra i samurai: in parallelo con la sua incapacità di esprimere compiutamente la reciproca attrazione sessuale con la figlia del capofamiglia se non in maniera violenta, il giovane Mokunoshin è vittima di una reticenza a uccidere che, in una società mai del tutto guarita dal germe della guerra, può estinguersi solo al prezzo della totale perdita di senno. Condensando in soli 80 minuti una messinscena fatta di immagini ad altissimo potere evocativo (in cui la foresta sembra piano piano inghiottire i personaggi e lo spettatore stesso) che raggiungono vette di sublime poesia (la riflessione sulla coccinella) fino a deflagrare nella violenza splatter di scontri all’arma bianca coreografati in maniera imprevedibile, Tsukamoto si avvicina al genere chambara con un approccio tragico e allucinato in cui, nella guerra, non esistono onore né catarsi, ma solo follia e autodistruttività, e utilizza nuovamente il metallo, al centro della sua filmografia fin dai tempi di Tetsuo, come mezzo prostetico di distruzione della carne e metafora estrema quanto efficace di disumanizzazione. (Davide Vivaldi)
Friedkin Uncut di Francesco Zippel
Friedkin Uncut, documentario presentato nella sezione Classici della 75esima Mostra del Cinema di Venezia, nasce dalla precedente collaborazione del giovane regista Francesco Zippel come produttore di William Friedkin per The Devil and Father Amorth. Durante il montaggio del film, Friedkin continuava a raccontare interessanti aneddoti che sono poi confluiti in questo lavoro di Zippel insieme a un ricco corredo di interviste a un pantheon di attori e registi. Il documentario si apre con un riferimento ai due poli che Friedkin cerca sempre di conciliare quando indaga la natura umana attraverso la cinepresa: Hitler e Gesù Cristo, il bene e il male, lo yin e lo yang. Se è quasi d’obbligo partire dal capolavoro più noto del regista, ovvero L’Esorcista, il punto di forza del film sta nel lasciare spazio anche alle altre opere e soprattutto a Friedkin stesso: Zippel rimane quasi sempre nell’ombra, orchestrando abilmente la raffigurazione del personaggio Friedkin attraverso la spontaneità e il carisma del regista stesso e i racconti carichi di affetto e stima elargiti dai colleghi e dagli attori. Ascoltiamo ad esempio Quentin Tarantino, intervistato nella sala di proiezione privata della villa losangelina acquistata proprio da Friedkin; il regista esprime la propria sintonia con il collega spiegando che ogni sua scelta artistica deriva dalla curiosità nei confronti dell’oggetto in esame, in particolare del male e della vulnerabilità umana. Ellen Burstyn ricorda invece che Max Von Sydow, per ironia della sorte, si bloccava sempre al momento di pronunciare la celebre battuta “Il potere di Cristo ti espelle!”. L’attrice sottolinea anche il punto di forza dei film di Friedkin rispetto a tanti horror contemporanei: il racconto realistico di una storia apparentemente normale e innocua che poi prende una piega inattesa, invece di una profusione di jump scare. Juno Temple aggiunge invece che Friedkin è uno da “buona la prima”, che mira alla spontaneità più che alla perfezione; Friedkin stesso minimizza l’impatto del riflesso della cinepresa visibile in una scena di Killer Joe sostenendo che tanto tutti sanno che per girare un film occorre una troupe. Le testimonianze di Wes Anderson, Damien Chazelle (che Friedkin considera la più grande promessa del cinema contemporaneo), Francis Ford Coppola, Willem Dafoe, Matthew McConaughey, Gina Gershon, Dario Argento e altri ancora, alternate agli stralci di interviste a Friedkin stesso, vanno a costruire una panoramica della filmografia del regista. L’esordio con il documentario The People vs. Paul Crump (risultato poi fondamentale per la revoca della condanna a morte del protagonista afroamericano) anticipa quella che diverrà una delle cifre stilistiche dell’opera friedkiniana: la disamina precisa e dettagliata degli ambienti prescelti, dal mondo della criminalità de Il braccio violento della legge e di Vivere e morire a Los Angeles ai club sadomaso del Lower East Side newyorkese raccontati in Cruising. La rappresentazione mai smussata del reale, con tutte le sue sporcature e contraddizioni e senza appigli per la speranza, riflette la disillusione dell’America post-kennedyana, ma corrisponde anche alla personalità del regista, che si esprime senza peli sulla lingua (“uncut”, appunto) ed è capace tanto di intonare Singin’ in the Rain di punto in bianco, come all’interno di un musical, quanto di calarsi i pantaloni per mettere a loro agio gli attori che devono girare una scena di nudo. Friedkin si rivela poi critico nei confronti dei concorsi cinematografici, sostenendo l’impossibilità di confrontare opere diverse utilizzando un unico metro. L’opera di Zippel merita però un plauso a prescindere dal metro di valutazione: il documentario, ben bilanciato e ricchissimo di aneddoti impossibili da riassumere in poche righe, è un dono per tutti gli appassionati di Friedkin, di thriller, horror e cop movie e di cinema in generale. (Alice Casarini)
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