FestivaldiBlogger Erranti,5 Settembre 2018
Venezia 75 – Dragged Across Concrete e Peterloo: recensione
Il noir di S. Craig Zahler e l'affresco politico corale di Mike Leigh
Vi interessa la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ma non potete essere al Lido? Cinema Errante vi propone i Diari da Venezia 75, con i film visti in anteprima per voi.
Dragged Across Concrete di S. Craig Zahler
Il talentuoso S. Craig Zahler torna al Lido per il secondo anno consecutivo, nuovamente fuori concorso, con Dragged Across Concrete, il terzo film da lui scritto e diretto dopo il cannibal-western Bone Tomahawk (2015) e il prison movie Brawl in Cell Block 99 (2017). Riprendendo da quest’ultimo uno dei protagonisti (il massiccio Vince Vaughn) e buona parte del cast di supporto, e limitando la violenza splatter delle opere precedenti a un paio di brevi sequenze (di cui una, è il caso di dirlo, per stomaci veramente forti), Zahler realizza quello che, per adesso, può essere considerato il suo capolavoro, un noir poliziesco segnato da un’amara ironia che però non inficia, anzi rafforza, l’inusuale spessore del racconto, incentrato su due poliziotti caduti in disgrazia e su due piccoli criminali afroamericani. Influenzato anche in questo caso dalla cinematografia classica di genere, con Rapina a mano armata di Kubrick e Il principe della città di Lumet come fonti di ispirazione dichiarate, il regista-sceneggiatore porta alla piena maturazione uno stile già inconfondibile, che si esplica in una narrazione dai tempi estremamente dilatati, ma sempre funzionali alla costruzione della vicenda e alla caratterizzazione dei personaggi (che raggiunge livelli di profondità fuori dal comune), e in un dosaggio limitato ma efficacissimo di sequenze d’azione di inusitata brutalità. Alla stessa maniera che in Bone Tomahawk, Zahler dà il meglio di sé nelle lunghe sequenze di dialogo, a tratti molto divertenti con il loro flemmatico umorismo, e assolutamente necessarie per conoscere meglio i protagonisti, ritratti come persone disperate, tutt’altro che perfette ma mosse da sentimenti autentici, che le portano a compiere azioni estreme per proteggere coloro che amano, e da un personale codice d’onore che, alla stregua degli antieroi del cinema di Melville o di Mann, accomuna criminali e tutori della legge. Stando alla larga dal facile manicheismo e dimostrando un assoluto rispetto per tutti i personaggi, il regista ha inoltre il coraggio di affrontare temi sociali come il razzismo e la brutalità poliziesca in maniera intelligente e mai retorica, come solo i grandi cineasti sanno fare. Una personalità dimostrata anche nella scelta vincente e non convenzionale degli interpreti principali: oltre che da un ottimo Vaughn, Zahler trae il meglio da un eccellente Mel Gibson, che mette molto di sé incarnando uno sbirro caduto in disgrazia (il suo confronto con il capo impersonato da Don Johnson è da antologia), e dagli afroamericani Tory Kittles (lo smilzo), che dimostra un carisma da protagonista, e Michael Jai White (i muscoli), buon attore la cui carriera stagnava da anni nell’action di serie B. (Davide Vivaldi)
Peterloo di Mike Leigh
Con Peterloo, in concorso per il Leone d’Oro, Mike Leigh porta a Venezia un film di proporzioni maestose, per durata e per inquadrature, ma senza i toni epici che avrebbe avuto la stessa pellicola nelle mani di Ken Loach. Fedele al proprio stile, ma anche coraggioso nello sperimentare una declinazione di genere pressoché inedita nella sua filmografia, Leigh va oltre il dramma storico, costruendo un affresco politico corale e definito nei minimi dettagli. Il nome “Peterloo” fu coniato come eco della battaglia di Waterloo, che nel 1815 aveva segnato la sconfitta delle truppe napoleoniche. Peterloo tuttavia è tutt’altro che un trionfo per la corona inglese: il massacro dei manifestanti pacifici radunatisi nella piazza di St. Peter’s Field, a Manchester, il 16 agosto 1819, simboleggia invece la crisi dell’ancien regime britannico, incapace di reagire al fermento riformista che serpeggia nella classe operaia se non con il pugno di ferro. Dopo una lenta preparazione, in cui talvolta la cinepresa indugia troppo a lungo sulle discussioni politiche e familiari, regalando però anche una profusione di inquadrature del livello di perfezione estetica a cui Leigh ci ha abituati, l’ultimo atto del film è un crescendo di tensione che esplode appunto nel massacro. La strage è eseguita per ordine delle autorità, che osservano la piazza da una finestra, a illustrare la distanza incolmabile tra il nuovo che avanza (e chiede una giusta rappresentanza, in particolare per quanto riguarda un nord così distante dalla capitale da ricordare Grande Inverno di Game of Thrones) e il vecchio che non accetta di rinunciare ai propri privilegi. Il comizio di John Hunt (Rory Kinnear), leader del movimento per l’estensione del diritto di voto, si trasforma così in un eccidio per mano della Guardia Reale, con 15 morti e centinaia di feriti. Anche nella mischia, però, lo sguardo resta umano, più che epico: la scena è ripresa dal basso, con un’attenzione particolare al singolo che permette di seguire i personaggi tratteggiati nel corso del film con un sapiente uso di campi e controcampi e di dialoghi realistici a suon di “aye”, “hear, hear” e accento mancunian. Il film pecca forse di eccesso di lunghezza (sindrome comune in questa edizione della Mostra veneziana), ma riesce nell’intento di offrire una chiave di lettura del presente senza mai essere didascalico. Significative in questo senso sono le apparizioni di un grottesco re Giorgio, pingue, delirante e quanto mai lontano dai suoi sudditi: scene illuminanti in un periodo di populismo dilagante. (Alice Casarini)
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