StreamingdiSara Mazzoni,5 Aprile 2018
Wild Wild Country, nella setta di Osho – Recensione
La docu-serie Netflix sulla storia del guru e della sua comunità in America
Wild Wild Country dei fratelli Chapman e Maclain Way è una docu-serie originale Netflix, prodotta da altri due fratelli, Mark e Jay Duplass. Se state pensando che un documentario in 6 puntate possa essere noioso, vi sbagliate: Wild Wild Country tiene col fiato sospeso dall’inizio alla fine, crescendo di minuto in minuto. La storia che racconta è quella del movimento religioso dei Rajneeshee e del loro guru Osho, più noto dalle nostre parti per i meme a lui dedicati che per la sua dottrina.
I fratelli Way raccontano questa storia come un thriller psicologico, sfruttando l’abbondanza di materiale di repertorio prodotto a suo tempo dalla setta e dai media americani. I filmati originali sono intervallati dalle interviste che i documentaristi hanno condotto con i personaggi chiave ancora vivi e dalle suggestive panoramiche dei luoghi in cui la vicenda si è svolta. Vediamo queste terre selvagge nella contea di Wasco, Oregon, e le strade di Antelope, il villaggio nel quale la comunità dei Rajneeshee emigra nel 1981.
I fratelli Way non sono interessati a raccontarci la dottrina di Osho, all’epoca ancora chiamato Bhagwan, quanto l’ascesa e la caduta della sua comunità in Oregon. Si potrebbe dire che i Rajneeshee stessero vivendo il loro sogno americano e che lo facessero come veri e propri colonizzatori utopisti. È qui che la storia inizia a volare: dall’India, comprano un terreno vicino ad Antelope e lo trasformano in Rajneeshpuram, la cittadella che fondano e costruiscono con le loro mani, arrivando a controllare politicamente Antelope.
Sembra l’inizio di una sit-com, coi bianchi cowboy reazionari che devono imparare a convivere assieme a un’orda di hippy che praticano l’amore libero per le strade della città. Ma non è una commedia, l’utopia dei Rajneeshee diventa presto una distopia mentre l’amore libero si accompagna agli AK-47 sventolati in risposta alle minacce degli indigeni armati di fucile. Non una sit-com, allora, sembra piuttosto un romanzo di Philip Dick, uno di quelli in cui si mischiano nuove religioni e fantapolitica.
In una storia che parte dalla costruzione di una nuova città e arriva fino al terrorismo batteriologico, non mancano le svolte imprevedibili. Ma l’informazione più importante contenuta in Wild Wild Country, quella attorno a cui ruotano 400 minuti di documentario, è che il vero capo dei Rajneeshee non è Bhagwan (Osho), ma una donna, Ma Anand Sheela. Bhagwan è il santone, l’uomo immagine; ma è Sheela a guidare la comunità, è lei a mettere in piedi Rajneeshpuram con la forza della sua determinazione sempre in bilico sulla follia, da brava visionaria.
È Sheela la vera protagonista di Wild Wild Country: un personaggio potentissimo, un’antieroina carismatica, di quelle difficili da trovare nella fiction (sono ruoli che siamo più inclini ad accettare quando il personaggio è maschile, pensate a Don Draper e Walter White). Si esce dalla visione della serie innamorati di lei, ammirati e terrorizzati al tempo stesso.
Con Wild Wild Country, i fratelli Way hanno fatto un lavoro eccezionale sia con l’uso del materiale di repertorio, sia con la produzione di quello nuovo, districandosi tra la visione e il montaggio di 300 ore di filmati originali e 100 ore del loro stesso girato. Alla fine della prova, è evidente la loro profonda comprensione di ogni sfumatura di questa storia e la capacità di fornire chiavi di lettura multiple. Per lo spettatore non sarà facile prendere posizione su quanto visto, neanche dopo avere conosciuto gli aspetti più controversi della vicenda; ma una cosa è certa: Wild Wild Country è una serie straordinaria.