EditorialediGiampiero Raganelli,23 Dicembre 2017
Cosa resta dei cinema d’essai?
Si avvicina la fine dell’anno e siamo al tempo delle classifiche. Sono innumerevoli le testate che propongono le graduatorie dei propri redattori critici. Guardando i film usciti nel 2017, la sensazione è di un aumento del numero di opere non di puro interesse di cassetta. Sono arrivati in sala, magari anche solo per poco e in un numero limitato di cinema, titoli francesi come lo straordinario Elle di Paul Verhoeven, Personal Shopper di Olivier Assayas o L’avenir di Mia Hansen-Løve, giapponesi come Ritratto di famiglia con tempesta di Hirokazu Kore-eda, rumeni come Sieranevada di Cristi Puiu.
Ma, tra i quasi 500 film in prima visione dell’anno che sta per concludersi, troviamo opere davvero difficili e ostiche, dall’appeal commerciale davvero minimo, che sarebbero altrimenti stati conosciuti solo da un ristretto numero di spettatori festivalieri. Parliamo di Austerlitz di Sergei Loznitsa, I Am Not Your Negro di Raoul Peck, addirittura il film di Vanuatu Tanna di Martin Butler e Bentley Dean, passato alla Settimana della Critica veneziana, addirittura film programmati solo a piccoli festival, come Corniche Kennedy di Dominique Cabrera e A German Life di Christian Krönes, Olaf S. Müller, Roland Schrotthofer, Florian Weigensamer.
Il merito va sicuramente al proliferare e al consolidarsi di piccolissime e coraggiose case di distribuzione, che si aggiungono a quelle già affermate, come la Lucky Red, che ormai portano in Italia solo il cinema d’autore “importante”. Parliamo per esempio della Zomia, della Tucker (non a caso legata a un festival, il Far East), Tycoon, Kitchen, Microcinema (che porterà in Italia il Leone d’oro 2016 The Woman Who Left di Lav Diaz) e altre.
Un coraggio imprenditoriale che però dovrebbe equivalere ad altrettanto rischio d’impresa per gli esercenti. Tutti i titoli sopracitati sarebbero i classici che fino a poco tempo fa avrebbero occupato la programmazione dei cosiddetti cinema d’essai. In perenne concorrenza con gli storici cineclub, quelli cattolici o di sinistra, quelli dove si poteva vedere L’arpa birmana o La corazzata Potëmkin, la cagata pazzesca del ragionier Fantozzi, quelli del “dibattito no” di Nanni Moretti, hanno avuto una netta supremazia fino a diventare preponderanti negli anni ’80/’90. Con una programmazione intermedia tra il blockbuster e il cineclub o la cineteca dedicati ai classici. Già il nome francese “essai” sprigiona tutto un fascino colto, parigino. Negli anni ’90 poteva succedere che una cinematografia come quella iraniana venisse scoperta, da festival o in questo caso da Nanni Moretti, o dalla trasmissione Fuori orario, con le sale d’essai pronte ad accoglierne i titoli. Si è arrivati anche alla degenerazione di film furbetti concepiti a tavolino con tutti gli ingredienti ‘piacioni’ giusti per spopolare in questo tipo di programmazione, per solleticare un target individuato come intellettuale. Un chiaro esempio è il film Chocolat di Lasse Hallström con la coppia Juliette Binoche – Johnny Depp, del 2000, epoca del grande splendore delle sale d’essai, in cui spopolò.
Ma ora cosa resta delle sale d’essai? Dopo che la concorrenza delle multisale nei centri commerciali periferici ha falcidiato i cinema cittadini? E dopo che internet, via peer to peer o e-commerce, mette a disposizione qualsiasi cosa per i cinefili più sofisticati, per di più in lingua originale che è ancora un tabù per il grande schermo? Si stanno affacciando già piccoli esempi coraggiosi, di cinema autogestiti o di iniziative di sale on demand, come quella di Movieday, per le quali centrale diventa l’uso di internet e dei social media. Solo con una sinergia tra le case di distribuzione di nicchia e le sale d’essai 2.0 si potrà garantire un futuro al cinema di qualità su grande schermo.