Goodnight Mommy: la recensione
Formalmente gelido ed emotivamente disturbante, il film, prodotto da Ulrich Seidl, si carica di ferocia latente
Tutti insieme appassionatamente. Sulle immagini della famiglia Von Trapp che canticchia una filastrocca, s’avvia la trappola mortale di Goodnight Mommy, primo lungometraggio narrativo di Veronika Franz e Severin Fiala, rispettivamente compagna e nipote del produttore Ulrich Seidl. Sfocerà, in effetti, in una storia di passione, nel vero senso della parola: di sofferenza fisica, di violenza pronta a far implodere il clima da fiaba nera congelata, in cui la madre può essere una strega e i cari figlioletti inclinare ai funny games.
La mamma (Susanne Wuest) è tornata, ma sembra una mummia. Reduce da un’operazione di chirurgia plastica al viso, la donna riabbraccia col viso bendato i figli gemelli (Lukas ed Elias Schwarz). Non sembra lei: impone il silenzio, ringhia ordini, è fredda e severa. Del padre non c’è traccia, nemmeno tra le foto, e tutto il mondo fuori… resta fuori. I due angioletti del focolare s’infiammano poco a poco e ponderano soluzioni estreme su come riportare indietro l’amata genitrice.
È un mondo auto-concluso, in vitro, quello di Goodnight Mommy, presentato a Venezia 2014. Ripreso con snello formato 35 mm in un’atmosfera rappresa e gelida, il “confino” della famiglia nel verdeggiare del paesaggio austriaco, con gli interni candidi affogati nella penombra, dà la sensazione dell’osservazione di un esperimento di etologia: i due bambini non sembrano infanti spaventati, quanto, piuttosto, delle prede indotte a tirar fuori un istinto di sopravvivenza che rasenta la ferocia. Vetrate che sdoppiano, specchi che ingrandiscono occhi insanguinati, persiane semichiuse conferiscono persino accenti metafisici.
Nel costante spaesamento di Goodnight Mommy, coltivato perché si percepisca un disagevole effetto di violenza latente, non mancano né le aperture plateali all’horror familiare, né più sofisticate strategie di tensione. Da un lato, quel pugno di disgustosi scarafaggi, la visita a una tomba che suona da sinistra investitura malefica, le evoluzioni quasi cronenberghiane di corpi torturati omaggiano il versante più tradizionale e morboso del terrore; dall’altro, con sinuosi e chirurgici movimenti di camera in stile Seidl, c’è una manipolazione dell’umore che alimenta la suspense con lentezza esasperante per poi concedersi lo shock improvviso, si concede toni da idillio pastorale per poi scatenare la repulsione fisica. L’aspetto formale del film è pulito, quanto succede è sporco.
L’accelerazione dall’ansia, al panico fino al caos infernale dell’ultima parte non costituisce solo un crescendo emotivo, ma risponde anche a una logica narrativa ineccepibile, in cui ogni tessera del mosaico s’incastra a dovere, senza lasciare spiegazioni pendenti, nonché concedendosi occasionali sortite d’ironia nera (uno sfortunato gatto che finisce per riecheggiare sculture di Damien Hirst). È una paura autoriale e calcolata, non alla portata di tutti per ritmi e sadismo, ma apprezzabile – al di là dei gusti – per l’andatura minacciosa e per la visceralità del rapporto madre/figli, con tutte le sue fascinose e perverse derive psicologiche.
Antonio M. | Sara M. | ||
7 | 6½ |
Scritto da Antonio Maiorino.