Jessica Jones: su Netflix la migliore serie Marvel
Vi presentiamo Jessica Jones - AKA Ladies Night
Brutale, cupa e noir come il fratellino Daredevil, l’ultima nata di casa Marvel per il catalogo Netflix, Jessica Jones, non delude le – grandi – aspettative e si rivela una delle migliori serie dell’anno, sicuramente la migliore di casa Marvel finora.
La libertà concessa dall’essere una serie Netflix rispetto a temi, stile e soggetti ripaga lasciando alla serie tutte le caratteristiche essenziali del fumetto d’origine (Alias, Brian Michael Bendis e Michael Gaydos, 2001-2004) che avevano inizialmente fatto temere per una riduzione televisiva dell’originale troppo edulcorata. Niente di tutto questo, Jessica Jones fa paura, mette ansia e ti lascia con gli occhi sgranati perché sì, una serie di supereroi per adulti che parla di violenza di genere, con un cast artistico e tecnico prevalentemente femminile e una showrunner (Melissa Rosenberg), è possibile e funziona.
Jessica Jones (interpretata da una bravissima Krysten Ritter) è una detective privata con superpoteri. È alcolizzata, con un notevole caratteraccio e decisamente poco incline ai rapporti umani. Di questo, si cura poco. Jessica Jones non chiede scusa per essere esattamente quella che è. Contornata da una serie di personaggi che già dopo una manciata di episodi risultano stratificati e interessanti (l’amica Trish – Rachael Taylor e l’avvocata Jeri Hogarth – Carrie-Anne Moss), e da un love interest (Luke Cage – Mike Colter) che nasconde poteri e un dolore profondo nel proprio passato, Jessica cammina per le strade di Hell’s Kitchen cercando sostanzialmente di farsi i fatti propri. Finché dal suo passato non riemerge l’uomo nero, Kilgrave (interpretato da un David Tennant qui spietato e spaventoso). Kilgrave è uno dei più inquietanti cattivi Marvel, nonostante non desideri conquistare l’universo. Ha, infatti, il potere di convincere le persone a fare esattamente quello che vuole, che si tratti di uccidere qualcuno o preparargli la cena. E vuole indietro Jessica.
Jessica, infatti, è stata rapita in passato da Kilgrave e trasformata in un oggetto a sua disposizione: come tutte le sue vittime, Jessica sapeva nel profondo di non volere fare quelle cose, ma non riusciva a non farle ugualmente. Il suo personaggio è, quindi, quello di una sopravvissuta, con chiari segni di PTSD, sindrome post-traumatica.
Willa Paskin, su Slate definisce la serie “una metafora sul consenso“, e a ragione. Jessica Jones è quello che ogni prodotto di finzione che ha a che fare con la violenza dovrebbe essere: sgradevole, doloroso, che ti fa distogliere lo sguardo e ti colpisce alla pancia. La violenza di genere non è feticizzata, non è raddolcita, non è risolta, è qualcosa con cui Jessica cammina tutti i giorni per strada, con cui lavora, con cui si muove nel mondo. Essere stata una vittima non la definisce come persona, ma è ciò che la muove per combattere l’uomo nero e sconfiggere i propri demoni. Che fanno molta più paura degli alieni che attaccano New York, perché hanno la faccia di un uomo il cui unico desiderio è annientare il tuo volere.
In Jessica Jones mi piacciono tantissimo certi dettagli, come vedere Krysten Ritter che attacca lo smartphone al caricabatteria quando va a letto (e se è troppo sbronza si scorda di attaccarlo alla presa della corrente). Anche il suo appartamento che cade a pezzi, la porta da riparare, o lei che deve sempre andare a fare rifornimento di alcol; sono cose che non vengono messe in scena solitamente, e che conferiscono alla serie una credibilità fortissima nonostante parli di super-poteri.