Loach in 4. Kes: la recensione
Kes, secondo lungometraggio diretto da Ken Loach nel 1969 e adattamento del popolare racconto di Barry Hines, A Kestrel for a Knave, è la storia di un ragazzino che vive un presente miserabile in una piccola cittadina del nord dell’Irlanda, vessato in famiglia e a scuola. L’unico orizzonte di senso si presenta nella fuga in una dimensione altra, i lunghi pomeriggi passati nei boschi ad addestrare un piccolo falco e nel supporto di un insegnante, Mr Farthing, che in lui intravede una sensibilità e una maturità incomprese.
Girato nello Yorkshire, con un cast composto quasi esclusivamente da attori non professionisti, reclutati tra gli abitanti del luogo, Kes è l’esempio più essenziale e ficcante di un approccio che, evitando derive pietistiche e sentimentalismi di facile presa, predilige l’osservazione naturalistica e la restituzione di significati non preordinati. Lo sguardo sulle dinamiche familiari e sull’assetto sociale che si vedrà poi anche in Family Life, infatti, si libera qui dalla cornice documentaristica e dal taglio forse eccessivamente didascalico del film del 1971 e rimane sospeso e muto, tra i paesaggi, le interazioni e i silenzi che compongono la vita di Billy Casper, il protagonista.
Si sa come sia abitudine di Ken Loach di lasciare gli attori largamente all’oscuro rispetto alla sceneggiatura dei film, modalità che permette di sviluppare dialoghi e scene, anche lontani dall’idea di partenza, dotati di un realismo e di una ricchezza di sfumature altrimenti inafferrabili. In questo caso il giovane David Bradley dà corpo all’impalpabilità di un sentire, al contempo lieve e grave, adulto e bambino, che è quello del quattordicenne Billy, intrappolato in un contesto che, per mancanza di relazioni d’affetto e vincoli sociali di solidarietà, giustificherebbe – come per gli altri personaggi del film – l’ottundimento della risposta emotiva e l’indifferenza reattiva che sono alla base della spirale della sopraffazione. Ma qui, nonostante il passaggio tragico obbligato, non si perde l’idea di un possibile riscatto.
Come in The Butcher Boy, capolavoro di Neil Jordan pur stilisticamente agli antipodi (con la sua estetica pop, i narratori inattendibili, la spinta al grottesco) rispetto al minimalismo di Kes, il movimento in tre tempi di resistenza all’esterno, rassegnazione e tragedia (là agita, qui subita) si conclude con uno spazio di speranza: in Jordan il piccolo bucaneve, ultima luce che rimane sullo schermo ormai scuro, in Kes il rispetto per la vita, la fascinazione per la bellezza che è già emancipazione dall’abbrutimento.
Scritto da Barbara Nazzari.
Barbara N. | ||
8 1/2 |