Horror Ketchup – Le tombe dei resuscitati ciechi: la recensione
I templari ciechi di Ossorio nell'ideale antologia dei morti viventi
Tra i mille modi di essere zombie dopo La notte dei morti viventi di George A. Romero, uno dei più tenebrosi e precoci fu quello incarnato dagli scheletrici templari dello spagnolo Amando de Ossorio ne Le tombe dei resuscitati ciechi: eretici che risorgono di notte per seminare morte e terrore, guidati da una sorta d’istinto rituale. È il 1971: il cineasta iberico ha alle spalle trascorsi western negli anni Sessanta, ma proprio nell’anno dell’exploit di Romero si è votato all’horror con Malenka, la nipote del vampiro, un modesto prodotto di genere che si consegna agli almanacchi per qualche trovata scenografica e per il ruolo di protagonista di Anita Ekberg. Meglio riuscito e più fortunato il filone narrativo inaugurato dai templari ciechi, che proseguirà con La cavalcata dei resuscitati ciechi (1973) e La notte dei resuscitati ciechi (1975).
In vacanza in Portogallo con il proprio fidanzato, Virginia (Lone Fleming) incontra Betty (Helen Harp), compagna di collegio con cui aveva intrattenuto un rapporto lesbico. Indispettita da un apparente, reciproco interesse, tra l’amica e il proprio ragazzo (Cèsar Burner), Virginia scende da un treno in corsa durante una gita. Passerà la notte tra le rovine di un villaggio medievale; scatenando, suo malgrado, l’inferno.
Se fosse una canzone, Le tombe dei resuscitati ciechi di Amando de Ossorio sarebbe carente nel bridge che prepara l’apice del refrain: a livello strutturale, sconta incongruità e una certa pretestuosa debolezza. La seconda parte, specie il crescendo finale, è davvero apicale, un “ritornello” di a volte ritornano giostrato non solo con tensione e atmosfera, ma persino condito con apprezzabile finezza.
SFIDA NELLA CITTA’ DEI MORTI – Alla suspense contribuiscono alcune belle scene di inseguimento nella città morta, in cui emerge l’esperienze di Ossorio nel western: basti pensare alla cavalcata in campo lungo dei templari che braccano Virginia, in un modulato passaggio dalla claustrofobia dei labirintici ruderi all’agorafobia degli spazi aperti dall’impossibile punto di fuga. Al clima cupo concorrono i rintocchi, le pietre tombali che cigolano, i canti liturgici mormorati in latino che accompagnano il risorgere dei templari. Rifiniture di una certa maestria sono poi singole invenzioni, come il magazzino dei manichini, dove inanimato e rianimato si mescolano con evocativa truculenza; o la caccia all’uomo, anzi, alla donna dei templari, che a causa della propria cecità individuano la vittima dalle urla di terrore: quando la preda lo capisce, si tacita, ma resta il cuore rivelatore a rimbombare nel petto come una sentenza di morte.
PER FAVORE NON MORDERMI LA VERGINE – Prima del finale shock, che punta con originalità – oggi leggermente datata – su sovrimpressioni sonore a un fermo immagine, si lasciano notare anche alcune scene exploitation, come l’allusione al rapporto saffico o un pudico stupro, ma soprattutto una tortura a un’incantevole vergine legata a una croce, a cui a mo’ di vampiri, in un curioso melange di mostruosità, i templari succhieranno il sangue dalle ferite. Solido nella regia e figurativamente interessante per l’innesto del filone zombie entro atmosfere vagamente goticheggianti, questo film sopperisce a qualche lacuna di scrittura grazie a sottili variazioni sui topoi dell’horror, contestualizzate senza genialità, ma con mestiere.
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Scritto da Antonio Maiorino.