Il Ricatto: la recensione
Esecuzione da virtuoso dell'esordiente Mira: un thriller in direttissima
Buona la prima: finché non ti ammazzano. Questo deve passare per la testa al pianista Tom Selznick, mentre sulla fronte gli passa il puntino rosso: già, c’è un cecchino in platea. La solfa è semplice: “sbaglia una nota e morirai”. Il problema è che il pezzo da eseguire è un rompi-dita: “La Cinquette”, un brano veloce e denso, che costringe a mille contorsioni delle falangi. Al punto che, cinque anni prima, proprio il fallimento su questo pezzo aveva indotto il talentuoso musicista a ritirarsi dalle scene. Adesso è di nuovo al pianoforte: e il cecchino lì, sempre in platea, con losche intenzioni e una voce roca che sussurra in un auricolare, mentre il pubblico ignaro si gode uno spettacolo che potrebbe evolversi nella morte in palcoscenico.
IL RICATTO DELLA SUSPENSE – Il ricatto, con cui il valenzano Eugenio Mira esordisce alla macchina da presa, è un dramma in presa diretta, un thriller dallo spartito della trama ridotto a pochi scarabocchi, compreso com’è nel melodioso brivido epidermico del “qui e ora”. Pochi traccheggi psicologici, nonostante quel pomo d’Adamo di Elijah Wood che fa l’altalena, per rendere credibile il personaggio del genio fragile, rimasto all’ombra scomoda di una moglie famosa (Kerry Bishé) e dello spettro di qualche trauma da spettacolo. Uomo che sa troppo, in un film del quale si è abbondantemente indicata la matrice hitchcockiana, è lui a tenere la scena, più che l’antagonista invisibile John Cusack, per il quale si ripropone per la seconda volta nell’arco di due settimane (troppe volte) lo stesso equivoco di Lei: data la mancata presenza fisica dell’attore, il vero recitante è il doppiatore, sicché il film andrebbe distribuito in lingua originale. Il duetto è un po’ in tono minore, dunque, ma il ritmo è andante: più che le contorsioni delle sequenze, a volte funamboliche come un tour de force di polpastrelli, è la smaccata, quasi pacchiana strategia della suspense a costituire la chiave dell’esecuzione. E il resto, oltre le sospensioni logiche? Poco o nulla, ma per un film di genere, quanto basta per il prezzo del biglietto.
PADRI, PADRINI E PRODUTTORI – In tema di contorsioni: anche non volendosi accodare a quanti hanno scritto di un Hitchcock applicato a un pianoforte a coda (per stile, suspense, vittima innocente), non sarà nemmeno troppo acrobatico far notare come il film sia prodotto dai creatori di Buried – Sepolto, diretto da Rodrigo Cortés. Lo stesso Cortés fa anche da produttore al film di Mira, ed è a una sua fatica recente che ci si può utilmente ricollegare per trovare un parallelo più fresco, quel Red Lights a cui, dal punto di vista visivo, sembra apparentarsi Il ricatto dell’esordiente spagnolo. Simili l’atmosfera pesante, i toni bruni della fotografia, l’eleganza agile di una regia atletica, felpata e dinamica a un tempo, nonché lo scioglimento sul palco durante uno show. Questa, piuttosto che l’archeologia cinematografica che va a ripescare Hitchcock, padre un po’ di tutti, è forse l’osservazione più stringente per interpretare “la prima” di Eugenio Mira: un padrino più giovane come Cortés, al massimo col comune feticcio del maestro del brivido.
Al regista spagnolo manca però, probabilmente, la mira del cecchino, capace di puntare le lunghe distanze: nella ridottissima durata de Il ricatto, il brivido vola via, tutto è adrenalina assordante, un susseguirsi di “e poi?”, un incubo da congiura all’eterno presente; che da buon incubo, però, sembra tracciare i confini di una certa irrealtà, la stonatura di troppo dei colpi di scena da accettare nel credulo calderone del divertissement. Ancora una volta diremo: poco male, se lo spettacolo funziona. E ancora una volta aggiungeremo: poco bene, se dal film cerchiamo ispirazione e solida genialità, piuttosto che un pezzo da virtuoso.
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Edoardo P. | ||
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Scritto da Antonio Maiorino.