The Book of Solutions: recensione del meta-Gondry
Michel Gondry torna dietro la macchina da presa dopo otto anni
Michel Gondry ritrova e ripropone se stesso all’ennesima potenza in The Book of Solutions, già presentato in anteprima a Cannes 2023 e gradita sorpresa della diciannovesima edizione del Biografilm Festival. Il suo alter ego nel film, il regista Marc Becker (magistralmente interpretato da un Pierre Niney spasmodico e al contempo adorabile), funge da espediente per raccontare non tanto il modo di lavorare di Gondry in generale, quanto la fase travagliata della post-produzione di Mood Indigo – La schiuma dei giorni, spiega il cineasta in conferenza stampa.
Il fulcro del film rimane tuttavia la caratteristica di Gondry più amata dagli spettatori: l’immaginazione da bambino, che, anche quando è completamente avulsa dalla realtà (o forse proprio per questo), ci conquista e ci fa credere che sia possibile fare tabula rasa dei ricordi dolorosi (Se mi lasci ti cancello, 2004) o galoppare su un cavallo di pezza (L’arte del sogno, 2006). In The Book of Solutions i successi più improbabili nascono tanto dalle difficoltà quanto dalla stasi e dalla procrastinazione dello stesso Marc, che, quando i produttori rifiutano di portare avanti il suo film da quattro ore, trafuga il girato e si rifugia a casa della zia Denise (Françoise Lebrun) sulle Cevenne, seguito dall’assistente Sylvia (Frankie Wallach), dalla fidata montatrice Charlotte (Blanche Gardin) e dall’aiutante di lei, Carlos (Mourad Boudaoud).
La chiave per capire questa scelta si trova nel delicato documentario L’épine dans le coeur – La spina nel cuore (2009), poco noto in Italia, ma cruciale per comprendere il bisogno di rifugio di Michel/Marc: la casa infatti è la stessa, quella della vera zia del regista, Suzette, a cui The Book of Solutions è dedicato. Denise, come Suzette, ha una carisma matriarcale e dolce insieme, è la Ur-madre che insieme alle altre figure femminili cerca di arginare le continue esondazioni di Marc.
Queste ultime, va detto, sono un terreno scivoloso e danno origine sia ai momenti più spassosi, sia a quelli più irritanti, che per poco non minano l’effetto dell’intero film. Deliziosa per esempio la scena di pioggia simulata con due tubi per innaffiare, esasperanti invece i continui cambi di traiettoria. Marc sceglie volutamente di liberare la propria immaginazione buttando parte delle sue medicine, fermato parzialmente in tempo da Denise; il film non specifica la patologia del personaggio, ma si può ipotizzare che si tratti di psicofarmaci per qualche forma di bipolarismo (“Al mattino mi sveglio triste, al pomeriggio mi sento manipolato”). A ogni modo, è nella cornice rurale delle Cevenne che Marc, quando si impegna, riesce a fare miracoli, dal salvare la vita alla zia che aveva sottovalutato un sintomo al creare una colonna sonora con i propri movimenti corporei che l’orchestra (trovata dalla santa Sylvia insieme allo studio di registrazione, in base a richieste che Marc le infligge in piena notte) trasforma in una serie di melodie.
Ultimo, ma non per importanza, il cameo di Sting, arruolato contro ogni previsione. Ma se i trionfi di Marc hanno dell’incredibile, la sua necessità di seguire immediatamente ogni suo istinto diventa un costante autosabotaggio: l’improvviso dirottamento della sua attenzione verso un altro progetto, la decisione di comprare un rudere poco distante e quella di montare il film dalla fine all’inizio lo portano a mettersi i bastoni tra le ruote da solo, senza però che lui se ne avveda.
Eppure Marc riesce a farsi benvolere da tutti, in casa e nel paese, di cui a un certo punto diventa perfino sindaco. Il libro eponimo, un volume vuoto che finalmente si decide a scrivere (a mano), introduce poi regole bizzarre che possono apparire in contraddizione, ma in fondo vanno adattate caso per caso: regole 3 e 4, “Ascolta gli altri” e “Non ascoltare gli altri”. Marc sembra seguire solo la seconda, ma Denise è in grado di piegarlo alla prima.
Non mancano gli artefatti originali a cui Gondry ci ha abituati da sempre: qui troviamo per esempio il “camiontaggio”, un furgone per nulla pratico ma estremamente suggestivo in cui si usano le frecce e il clacson per l’editing dei video. Non sorprende, in fondo, che all’incontro con la stampa il regista abbia dichiarato di non avere progetti legati all’intelligenza artificiale: gli sarebbero inutili, quando la sua immaginazione bambina è in grado di ricreare qualsiasi cosa anche con mezzi di fortuna, come i remake artigianali di Be Kind, Rewind (2008). Apprezziamo quindi il ritorno a briglia sciolta dell’amato cineasta: forse si poteva premere un po’ meno sull’acceleratore, tagliando qualche scena in cui Marc risulta particolarmente irritante e porta il film a un passo dal disgregarsi, ma nel complesso è un piacere poter credere nuovamente alla magia della creatività e della forza di volontà.
Alice C. | ||
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