Fleabag (2016-2019): recensione della serie evento
Lo show Amazon creato da Phoebe Waller-Bridge su un'irriverente giovane donna
Se non conoscete ancora Fleabag, probabilmente avete passato l’ultimo anno in eremitaggio. La serie di due stagioni creata da Phoebe Waller-Bridge e prodotta da Amazon è stata l’evento del 2019, nominata per undici Emmy, cinque solo per l’attrice protagonista.
Il successo della serie – Fleabag: recensione della serie evento
Il New York Time e Vulture definiscono la serie brillante e perfetta, mentre il Guardian la giudica la più elettrizzante e devastante dell’anno. La definizione si adatta bene ad una serie che è molto difficile da giudicare secondo i parametri e i generi tradizionali: commedia, dramma, humor nero? Tutto questo e di più.
La prima stagione, seppure celebrata dai critici, è passata in sordina, ma la seconda ha fatto esplodere il fenomeno Phoebe Waller-Bridge, creatrice della serie BBC America Killing Eve e ora anche sceneggiatrice dell’ultimo Bond, e quello parallelo del prete sexy (hot priest in originale), dato che la seconda stagione è centrata sull’amore impossibile tra la protagonista Fleabag e un prete cattolico interpretato da Andrew Scott.
Le origini e l’evoluzione – Fleabag: recensione della serie evento
Ma cos’è Fleabag e come è nata? L’origine è teatrale, la serie infatti si è sviluppata a partire dall’omonimo monologo di Waller-Bridge presentato al Festival di Edimburgo del 2013, che ha vinto il Fringe First Award. Fleabag, che significa letteralmente sacco di pulci ma che indica una persona sgradevole, è il soprannome della protagonista, di cui non conosciamo il vero nome. Poco più di trent’anni, Fleabag fa molto sesso, parla molto di sesso, ha una vita disordinata e una famiglia disfunzionale. Ama la sorella Claire (Sian Clifford) ma hanno caratteri opposti, non comunica con il padre e ha un terribile rapporto con la matrigna narcisista (interpretata dalla bravissima Olivia Colman). I rapporti con gli uomini sono all’insegna del sesso senza pensieri, almeno fino alla seconda stagione, dove si innamora di un uomo “impossibile” che riesce a superare le sue difese. Infatti, senza troppi spoiler, la sregolatezza e l’abrasività della protagonista nascondono un trauma che verrà rivelato solo alla fine della prima stagione.
Lo sguardo e la rappresentazione – Fleabag: recensione della serie evento
Al di là della storia, la potenza di Fleabag è come la si narra. Phoebe Waller-Bridge rompe continuamente la quarta parete, con frequenti sguardi in macchina che rendono lo spettatore complice delle sue disavventure, ma anche dei sui giudizi impietosi su chi la circonda e soprattutto su se stessa. Potremmo dire che Fleabag è autolesionista, ma lo fa con un’intelligenza talmente bella che in qualche modo anche tu vuoi partecipare al suo gioco al massacro psicologico. Se nella prima stagione gli sguardi in macchina e l’ammiccare a noi spettatori funzionano come commento tragicomico alle sue spesso deprimenti avventure sessuali e ai suoi difficili rapporti con la famiglia, nella seconda serie la frantumazione della quarta parete diventa qualcosa di molto più significativo, grazie alla dinamica tra Fleabag e The Priest (la serie non nomina mai i personaggi se non con il loro ruolo). Il prete infatti è l’unico che si accorge degli sguardi di Fleabag verso di noi. Per la prima volta da molto tempo, Fleabag viene vista completamente da un’altra persona, di conseguenza non si può più nascondere.
Le due stagioni invogliano al binge watching, visto che sono entrambe di sei episodi da ventiquattro minuti l’uno. In realtà, oltre a rivoluzionare il modo di usare lo sguardo in macchina, e a spingere ancora più in avanti i confini della rappresentazione della sessualità femminile, Fleabag modifica in modo originale anche il format, perché la serie è sembrata, almeno a chi scrive, un lungo film, diviso in due tempi. Nel primo, seguiamo Fleabag nella sua spirale discendente e veniamo resi partecipi della sua disperazione. Nel secondo assistiamo al suo lento risalire, guidati dalla progressiva consapevolezza di cosa vuol dire prendersi cura di sé e di chi si ama.
Una (quasi) come noi – Fleabag: recensione della serie evento
La serie è piena di scene memorabili, come quella nella prima stagione in cui Fleabag ci racconta in maniera blasé la sua esperienza con il sesso anale, o quella nella seconda in cui il personaggio interpretato da Kristin Scott Thomas dedica un monologo all’apologia della menopausa. Battute come “a volte mi chiedo: sarei ancora una femminista se avessi le tette più grandi?” sono frequenti in bocca alla protagonista, che cerca di destreggiarsi tra le mille sfaccettature dell’essere donna oggi, tra postfemminismo, disagio esistenziale e il perpetuo, immortale bisogno di essere amati. Come mi disse una volta un’amica mentre parlavamo della serie davanti ad un caffé, vorrei che Fleabag fosse la nostra migliore amica, con la quale scambiare sguardi complici e lenire il dolore con l’ironia, quando la realtà si fa davvero troppo surreale.
Elena D. | ||
9 1/2 |