Venezia 76 – La vérité: recensione
Il primo film europeo di Kore'eda Hirokazu riflette su realtà e rappresentazione
La 76sima edizione della Mostra del Cinema di Venezia si apre con La vérité di Kore’eda Hirokazu, primo lavoro del regista non in lingua giapponese, con cast e troupe quasi interamente francesi. E nella francesità, o quantomeno nell’europeismo, si può forse individuare la cifra stilistica della pellicola, riflessione metacinematografica su temi cari ai pensatori d’oltralpe come realtà e rappresentazione, realtà e menzogna. La verità del titolo si rivela un termine più che mai soggettivo: identità e rapporti vengono filtrati, rielaborati e spesso mistificati attraverso la narrazione del sé o la mise en scène.
Catherine Deneuve troneggia nei panni di Fabienne, (meta)attrice osannata e carismatica che ha appena dato alle stampe la sua autobiografia. Nel volume però i legami più importanti sono assenti o romanzati; la figlia Lumir (Juliette Binoche) a sceneggiatrice rientra dunque in Francia dagli USA con il marito Hank (Ethan Hawke) e la figlia Charlotte (Clémentine Grenier) per far visita alla madre, arroccata nella casa-castello, e sciogliere i nodi del complesso rapporto. Nelle parole di Kore’eda, il film è infatti “una storia d’amore tra madre e figlia”, che si allarga a includere la piccola Charlotte e altre figure succedanee, materne (l’ingombrante ombra di Sara Mondovan, compianta collega di Fabienne e madre elettiva di Lumir) e filiali (la nuova, giovane co-protagonista Manon Lenoir), ma resta sempre preponderantemente femminile.
Il regista, qui anche autore del soggetto e della sceneggiatura, costruisce infatti personaggi maschili adorabili e ben caratterizzati, ma consapevolmente subordinati al gineceo che li avvolge. Così Hank accetta di buon grado la (calzante) definizione di attorucolo televisivo di serie B, su un piano eternamente altro rispetto alla recitazione di Fabienne; il compagno di quest’ultima, Jacques (Christian Crahay) si accontenta di fare da chef di casa, mentre l’eccentrico ex marito Pierre (Roger Van Hool) non si stupisce più di tanto di figurare come caro estinto nell’autobiografia. I tre interpreti si adeguano sapientemente alla medietas dei loro personaggi: spicca in particolare Hawke, il cui cowboy volutamente e autoironicamente yankee non sfigurerebbe al fianco di Buster Scruggs.
Il film tuttavia rimane dirompentemente femminile e soprattutto deneuviano. In un gioco di specchi e autoriscritture, l’attrice (il cui nome di battesimo è proprio Fabienne) domina il campo, fungendo da dispotico trait d’union tra i personaggi, ma anche tra il passato e il presente: non a caso la pellicola fantascientifica che sta girando la vede nei panni di una donna costretta a fare i conti con il passare degli anni mentre la madre ha scoperto un modo per evitarlo. Il messaggio del metafilm si accompagna alla trasfigurazione dichiarata del reale: in risposta alle domande sull’autobiografia, Fabienne dichiara “Sono un’attrice, non racconterei mai la nuda verità.”
Il nuovo lavoro di Kore’eda si colloca sulla soglia dell’inverno, sotto tutti gli aspetti; la Deneuve, giunonica regina tardoautunnale, raffigurata quasi sempre seduta a dare ordini o incorniciata da porte o fondali televisivi, ruba la scena persino alla pur brava Binoche. Ne deriva una pellicola sicuramente godibile, ma che in parte risente dello sbilanciamento in favore della (somma) protagonista e di una costruzione e una regia forse troppo garbate, in cui la componente autoriale si stempera in un omaggio difficilmente distinguibile dal filone che ne è oggetto.
Alice C. | Davide V. | ||
7 | 7 |
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