Veleno, il male di sopravvivere nella propria terra
Dal Festival di Venezia, la terra dei fuochi è una frontiera contaminata
Chi, avvistando il trittico Salvatore Esposito – storia di malavita – terra dei fuochi, non evocherebbe, anche alla lontana, un vago effetto Gomorra, figurandosi per istinto i dintorni cinematografici sempre più battuti dei romanzi criminali para-camorristici? Queste e simili mappe mentali potrebbe generare Veleno di Diego Olivares, proiettato alla Settimana della Critica della 74esima edizione del Festival di Venezia – dove peraltro un focus tematico non distante si accendeva anche ne L’equilibrio di Vincenzo Marra. Bisogna però spegnere gli equivoci: la sensazione nasce per lo più dalla campagna di comunicazione sorta attorno al film, ma a ben vedere Veleno presenta una chimica più composita, forse irrisolta, ma da segnalare quantomeno per un conato di originalità.
A reagire in questo composto di western, melodramma e sceneggiata, sono alcune dinamiche familiari, comprese quelle legate alla parentela più importante: la maternità della propria terra. L’amano, incondizionatamente, due cocciuti contadini, che si amano a loro volta alla follia e stanno per cementare il proprio rapporto con la nascita del primogenito: Cosimo (Massimiliano Gallo) e Rosaria (Luisa Ranieri). La loro impresa è in comproprietà con Ezio (Gennaro Di Colandrea), fratello di lui, più incline a farsi tentare da offerte che non si possono rifiutare – come quella dell’avvocato Carannante (Salvatore Esposito), giacca linda e denaro sporco. Sposato per convenienza – lo “zio” di famiglia (Nando Paone) gestisce illeciti vari – ambisce alla carica di sindaco per allargare l’attività. La sua campagna prosegue, tra favori e intimidazioni, mentre la campagna inquinata coltivata da Ezio causa nell’agricoltore un brutto male.
Le due interessanti chiavi individuate da Diego Olivares in Veleno per raccontare una storia già sottoposta in territorio cinematografico a molteplici variazioni sono quelle del western e della bellezza della natura. Se le storie del West costituiscono infinite variazioni di un’unica frontiera concettuale, ossia difesa e conquista della terra, in questo senso Veleno rivendica la legge del più forte in una zona in cui la natura si è fatta contesa e aspra, oggetto di vagheggiamento di valori tradizionali e di insidie di giochi di potere. Non solo: se nel western l’enfasi sul paesaggio costituiva un tratto fisiologico e fotografico, così è anche nel film di Diego Olivares ancora una volta spiazzando lo spettatore: spaesamento nel paesaggio. Perché la natura nel film non è solo quella offesa e contaminata, ma anche quella inaspettatamente bella, rinvenuta in un scorcio fluviale, in un airone levato in volo, nell’occhio (incontaminato) dei bambini che aspettano di vedere un fenicottero. C’è del marcio, ma non ci si marcia: la Campania è pur sempre (nostalgicamente?) felix.
I mandriani ci sono (così come gli sgherri che danno fuoco al recinto del bestiame…), ma non ci si aspettino cowboys. Il quadrilatero dei protagonisti è abbastanza singolare, e lo si può immaginare diviso in due da una diagonale. Da un lato Luisa Ranieri e Massimiliano Gallo non escono dalla propria comfort zone di recitazione, dando il massimo in carnalità, esasperazione emotiva, sofferta veracità, insomma, quanto è nelle loro corde; dall’altro, invece, Salvatore Esposito e Nando Paone si confrontano con sfumature attoriali meno consuete. Esposito non fa il boss hard boiled, ma l’avvocato con la coscienza che ribolle: ruolo rischioso, che a tratti lo fa sembrare spento, ma che s’incastra a dovere in una storia di sole vittime. Paone dovrebbe fare il villain, invece si configura come un villano viscido, non un concentrato di cattiveria, quanto di untuosità.
Così riassunti gli azzardi e gli spunti personali, non sembra che a Veleno sia imputabile, come pure si è scritto, di riciclare gli stilemi di genere, o di apparire film già visto; quanto, piuttosto, di non riuscire sempre a trovare il giusto impasto all’interno di una ricetta piuttosto variegata e, semmai, di lasciar perplessi in qualche singolo ingrediente di scena. Ad esempio, la reazione allucinata di Massimiliano Gallo alla notizia del proprio male assume un tono un po’ grottesco, così come l’intero corso della malattia sembra creare una sorta di cancer movie nel movie. Sono le controindicazioni, perdonabili, di un film che ha saputo prendersi i propri rischi, non sempre trovando misure convincenti, ma riuscendo nel complesso a raccontare quanto si era proposto di raccontare: l’avvelenamento fisico della terra, ma soprattutto morale di chi la abita, generato ogni qualvolta si recida la radice delle proprie origini.
Antonio M. | ||
6½ |
Scritto da Antonio Maiorino.