EditorialediGiampiero Raganelli,8 Luglio 2017
La corazzata, il montaggio dialettico, la cagata pazzesca
Ėjzenštejn è morto, Fantozzi è morto ma noi stiamo tutti bene
Da che mondo è mondo l’arte, la letteratura, le arti figurative, il cinema hanno un ruolo scomodo nella società, la vera arte non si addomestica, non si appiattisce al potere o alle classi sociali dominanti, ma può e deve essere sovversiva, corrosiva, dare fastidio. E da che mondo e mondo quale modo migliore ha escogitato il potere per difendersi e contrastare questa minaccia se non quello di inglobare, fare proprie le opere scomode, distillandole, rendendole innocue, privandole della carica eversiva? Il processo collaudato è quello di trasformarle in classici, libri dalla copertina brossurata da vendere in libreria e da sfoggiare nei salotti borghesi. Magari facendo una selezione delle opere: cosa facciamo leggere di Manzoni a scuola? Certo rimane quel significato eversivo, ma in fondo va contestualizzato.
L’esempio più clamoroso nel campo del cinema riguarda l’operazione “Cinema Forever” di una quindicina d’anni fa: il restauro dei grandi classici, ovviamente, del cinema italiano operato da Mediaset che distribuiva le pellicole gratuitamente, ma pretendendo la proiezione di un lungo spot promozionale prima. Si sarà forse rivoltato nella tomba Fellini, i cui tanti capolavori facevano parte di quel catalogo, che in vita aveva lanciato strali, e ne aveva fatto oggetto di satira, sul presidente di quella società lì. E anche a Pasolini, che quel signore non ha avuto modo di conoscere, probabilmente non avrebbe fatto piacere. Di entrambi gli autori erano state escluse dal restauro quelle opere più indigeribili, come il Satyricon o Salò.
Questa riflessione serve a commento delle risibili polemiche scoppiate dopo la dipartita di Paolo Villaggio, reo secondo tanti di aver svillaneggiato La corazzata Potëmkin, nella famosa scena de Il secondo tragico Fantozzi, di aver contribuito al dileggio popolare di un capolavoro del cinema, che tutti conoscono non per il montaggio delle attrazioni, quanto come una cagata pazzesca. Ma quella di Luciano Salce (perché sì, il regista non era Paolo Villaggio, e Salce è peraltro l’autore di quel Colpo di stato che è stato il film più censurato in Italia, quindi in fatto di arte scomoda ne sa qualcosa) è semplicemente l’opposizione a una imposizione culturale, a quei cineforum preconfezionati e precotti con dibattito (“No, il dibattito no!”; come anche Nanni Moretti ironizzava) di una volta. Era l’epoca dei cineclub, per carità pionieristica, e le riflessioni dei Cahiers du Cinéma in Italia erano del tutto sconosciute ai più. E anche le pellicole che potevano arrivare erano solo un piccolo campionario. Ma sono quelle entrate in un’iconografia arbitraria della settima arte. Magari il capolavoro di Ėjzenštejn è stato piuttosto Ivan il terribile, mentre il cinema giapponese produceva cose anche molto più interessanti di quanto non lo fosse L’arpa birmana. Quella di Fantozzi, e di Salce, è stata una dissacrazione pop, come i baffi di Duchamp alla Gioconda o L’ultima cena rivisitata da Andy Warhol.
Ci piace ricordare Villaggio ogni volta che ha accompagnato l’oggetto della sua dissacrazione, al Festival di Locarno del 2000, dove ricevette il Pardo d’onore proprio quando c’era una preziosa retrospettiva sul cinema sovietico, in cui lo studioso Naum Kleiman tenne una conferenza sul restauro de La corazzata Potëmkin.