Ghost in The Shell, storia di una nascita
Da Mamoru Oshii a Scarlett Johansson, attraverso lo specchio della nostra identità
Era l’ormai lontano 1996 quando i neo-otaku italiani misero le mani sulla VHS di Ghost in The Shell di Mamoru Oshii. Erano tempi difficili per gli amanti di manga e anime giapponesi: le case editrici che li pubblicavano erano ancora poche e gli attacchi di psicologi de opinionisti benpensanti che erano fermamente convinti che queste cose “fatte al computer” fossero deleterie per il corretto (leggi eteronormativo) sviluppo sessuale dei giovani italiani erano all’ordine del giorno.
Invece, per molti, Ghost in The Shell fu una vera e propria rivelazione. Era certamente ottima fantascienza: corpi cibernetici, esoscheletri di titanio, cervelli potenziati elettronicamente troppo prima di Matrix, una metropoli postmoderna bladerunneriana ipertecnologica, ma sporca e decadente, dove insieme agli schermi led e alle luci al neon potevi ancora sentire la puzza delle lische di pesce lasciate a marcire nei rigagnoli melmosi di un mercato.
I titoli di apertura più belli di sempre avevano portato per mano lo spettatore attraverso la nascita cybernetica della protagonista Motoko Kusanagi, cervello di donna innestato in un corpo di puro titanio. Un cyborg, uno di quegli esseri progettati in laboratorio che, per loro stessa natura, fondono i concetti di organico e inorganico, di uomo e macchina, di maschio e femmina, di natura e cultura. Insomma, di tutte quelle opposizioni binarie funzionali alle logiche di potere e alle pratiche di dominazione. Kusanagi è l’emblema di Donna Haraway e di tutti quelli che, come lei, non hanno paura di identità permanentemente parziali e punti di vista contraddittori.
Motoko, o meglio “Il Maggiore” della Sezione 6 è sulle tracce di un inafferrabile hacker che si fa chiamare “Il Burattinaio”, ma ben presto si capisce che la storia, benché entusiasmante, è solo un pretesto per seguire la nostra eroina in un perturbante viaggio nell’identità, un’odissea nel tentativo di definire ciò che rende umani. Attraverso le gesta di Motoko, che ormai si muove indistintamente tra il piano fisico e quello digitale, riusciamo a compiere una riflessione profonda sui concetti di memoria, di mente, nascita, vita e morte. Inseguire la propria identità per poi trasformarla in qualcosa di completamente nuovo, come avviene nel finale del film, in cui Kusanagi si fonde con la mente del “Burattinaio” per dare alla luce un “nuovo essere”.
La notizia dell’adattamento live del film da parte degli americani lasciò molti appassionati a bocca aperta. Come rapportarsi a un’opera di questo calibro e non sentirsi ineluttabilmente soverchiati? Se volete vedere l’adattamento di Rupert Sanders bisogna che vi prepariate alla delusione. Del film di Oshii, purtroppo, rimangono solo alcune sequenze ricalcate in scala 1:1. Il resto sono Scarlett Johansson che incespica in qualcosa di troppo più grande di lei e l’ennesima “revenge story” dove ci sono i cattivi e i buoni che poi si scoprono cattivi. Nessuna riflessione filosofica, nessuna domanda identitaria, nessuna “vocina che ti sussurra nello spirito”, nessuna “rete vasta e infinita”. Un film action qualsiasi destinato a essere dimenticato all’istante.
Solo un guscio (shell) senza anima (ghost).
Scritto da Marco Vaccari.