Miss Peregrine: come smontare 5 accuse a Tim Burton
Una rilettura di Tim Burton... senza pensare al vecchio Tim Burton
Tim Burton è di quegli autori che all’uscita di un film, come per un incantesimo, riesce trasformare le recensioni in saggi a tesi. Così, più o meno saggiamente, in tanti hanno ritenuto di commentare Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali nella maniera speciale che pare debba competere a questo regista: accusandolo di ripetitiva maniera, o al contrario, lamentando che non sia in grado di ripetere quello stile consolidato e distintivo al quale tutto si chiede fuorché di cambiare. Caro Tim, questo è il tuo loop: tutto il resto è un flop.
In questo limbo ingiudicabile, in cui, come di norma, la parola finale spetta allo spettatore, la critica depone le armi, e semmai è un utile divertimento lanciarsi in una compilation di imputazioni rivolte a Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali. Pardon: a Tim Burton. Perché casomai il film dovesse piacere, il metro resterebbe il più severo paragone: sé stesso – il vecchio, geniale sé stesso. Proviamo, allora, ad addolcire qualche brontolamento: ognuno sceglierà, poi, se siamo troppo zuccherosi noi, o altri troppo esigente.
1) Non regge il confronto col libro. È la classica fanfara dei delusi, in questo caso amplificata dal successo della trilogia di Ransom Riggs (Rizzoli). Alla storia del timido Jacob, finito in Galles in un’isola che non c’è tra i ragazzi speciali della Mary Poppins dark, Miss Peregrine, mancava solo una cosa: una veste visiva. Una miriade di animali fantastici sotto un cielo nordeuropeo, già gotico negli umori cromatici, sono ragionevoli indizi di un buon lavoro.
2) Effetti speciali scialbi, CGI da Marvel. A parte che tirare in ballo la Marvel non è sinonimo di stereotipo, ma di alto livello industriale: ok, ok, abbiamo capito, da Burton si pretende lo scatto artigianale. Ma già valgono il biglietto: una scena sottomarina da brividi, un’animata battaglia al luna-park, l’immancabile stop motion di una sfida tra marionette frankensteiniane (o frankenweeiniane, fate voi).
3) Superficiale, non si approfondiscono i personaggi e non ci si affeziona ai protagonisti. Dipende dal taglio: se non c’è un Edward o un Ed Wood, già dal titolo, è perché si punta piuttosto alla coralità dei ragazzi speciali. È un film sull’isola felice insidiata dall’infelicità, non già su di un infelice; sull’adolescenza con l’angoscia dei minuti contati, e non sull’adolescente tout court. L’effetto affetto, poi, è più facile nei tempi dilatati del romanzo: qui basta una scorribanda, un giro di giostra. E poi, quanto è sexy gothic Eva Green, nonostante la matura innocenza da nonnetta? E quanto fracassone Samuel L. Jackson, uscito da un Tarantino impossibile?
4) Due ore sono troppe. Non conta la durata, quanto il ritmo: nel tempo del film si riesce non solo a raccontare una storia che regge, bensì a creare un universo possibile. Se proprio ci si vuole invischiare in improbabili riflessioni di minutaggio: per fare un film può bastare un’ora e mezza, per inventarsi un mondo serve di più.
5) Sì, ma il vecchio Tim Burton. In tema di se e ma: se non fosse Tim Burton, criticheremmo ad ogni piè sospinto? Ma tant’è, la fama vuol dire anche questo: l’attesa famelica di critica e pubblico. Con gusti e pretese – scusate la banalità – molto diversi. Il loop, insomma, è servito: il bilancio destinato al chiaroscuro, riavvolgendo il nastro della produzione del passato, che tanto e tanti ha stregato. Sarà, ma fuori dall’ombra di una carriera gigantesca, Miss Peregrine resta un godibile prodotto di entertainment, la bella visione senza dover essere visionari.
Antonio M. | Edoardo P. | Thomas M. | ||
7 | 7 | 6½ |
Scritto da Antonio Maiorino.