Orange Is the New Black: le donne resistenti di Netflix
Potere, privilegi e violenza: lotte e differenze delle donne in arancio
Giunta alla quarta stagione, Orange Is The New Black è una serie che ha consolidato la propria reputazione senza smettere di essere al centro di densi dibattiti. Creata da Jenji Kohan e basata sul volume autobiografico di Piper Kerman, Orange is the new black. Da Manhattan al carcere: il mio anno dietro le sbarre, cresce in coralità nel tempo, raccontando con scrittura sicura e mai banale le esperienze presenti e passate di alcune detenute di un penitenziario federale di minima sicurezza.
Orange Is the New Black probabilmente non propone una rappresentazione molto verosimile della vita in carcere, e sfrutta talvolta uno sguardo erotico sul corpo femminile, nonché una vicinanza sospetta con il punto di vista della bionda e agiata Piper (Taylor Schilling). Ma lo fa comunque cercando di guardare alle donne secondo punti di vista molteplici, e mantenendo uno sguardo intersezionale sulle differenze.
Non viene mai nascosto che Piper sia una privilegiata: è bianca e, benché bisessuale, ha un fidanzato, una famiglia e una comunità borghesi di supporto. Dai flashback emerge invece come personagge sempre bianche ma più clamorosamente queer (pensiamo a Big Boo – Lea DeLaria), o dal retroterra economico o culturale svantaggiato (ad esempio Pennsatucky – Taryn Manning), abbiano dovuto reagire a varie forme di violenza, più traumatiche, pervasive e permanenti.
Lo show racconta in modo efficace anche la resistenza di donne non-bianche, non-eterosessuali, non-borghesi. La rappresentazione dei gruppi etnici all’interno della prigione non è scontata, anzi, ogni appartenenza semplificata finisce per risvegliare fantasmi tragici. L’aumento della posta in gioco sulla razza da parte di Orange Is the New Black con il passare degli anni è anche probabilmente dovuto alle tante polemiche sorte sulla messa in scena di alcuni stereotipi nella sua prima stagione, poi efficacemente affrontate dallo show.
Non è infine da sottovalutare la scelta di far interpretare Sophia, donna transessuale, a Laverne Cox; o una donna nera, lesbica e colta a Samira Wiley, che corrisponde a tutte queste caratteristiche (benché, a differenza di Poussey, non conosca il tedesco). Non si tratta di mantenere una qualche “autenticità” fra attrice e personaggia, ma di riflettere sulla corrispondenza di alcune esperienze e al modo in cui plasmano la nostra pelle, anche se talvolta la messa in scena di alcuni aspetti è problematica o polemica.
Le donne di Orange Is the New Black non sono mai solo vittime né eroine, ma cercano di affrontare – ciascuna a suo modo, e non sempre riuscendoci – le violenze e i segni lasciati dalle tante vite che hanno vissuto. La serie insomma privilegia la molteplicità dei corpi e delle soggettività delle donne, senza nascondere la loro difficoltà di relazionarsi alle istituzioni (carcerarie e non, a loro volta raccontate in modo complesso e mai anonimo) e di resistere al potere, cercando sempre di andare nella profondità dei rapporti e delle differenze.