Venezia 73: Arrival e altre recensioni
Il film di Villeneuve ambizioso ma diseguale. Verbosa la fiaba della Burshtein.
Sbarcano gli alieni al Lido attraverso il nuovo film di Denis Villeneuve, Arrival, presentato in concorso a Venezia 73. Una pellicola sci-fi nella quale il regista franco-canadese, attivissimo e ormai adottato da Hollywood, schiera Amy Adams e Jeremy Renner nella parte, rispettivamente, di una linguista e di un fisico chiamati a occuparsi di una mediazione con l’equipaggio di un’astronave extraterrestre apparsa sulla Terra.
Se l’incipit ci riporta al precedente film di Villeneuve, Sicario, per l’idea di una protagonista femminile, piena di buone intenzioni e all’oscuro di tutto, che viene coinvolta in una missione governativa segreta ad altissimo rischio, di questo sembra riproporre anche certe soluzioni registiche, quali le minacciose inquadrature aeree, e l’ossessività della colonna sonora. Lo svolgimento richiama invece numerosi classici della fantascienza umanista, dal seminale Ultimatum alla Terra a Incontri ravvicinati del terzo tipo a Contact, fino al meno noto Bagliori nel buio. Il risultato è affascinante, ma molto diseguale: quasi del tutto privo di sequenze d’azione, e costellato da effetti speciali accurati ma piuttosto sobri, il film è convincente nel mantenere un profilo più science che fiction, e nobile nel suo messaggio di invito al dialogo con chi si considera a prima vista un invasore e nel suo inno alla comunicazione come unica forza in grado di garantire la pace nel mondo (ben veicolato dall’appassionata prova della Adams), ma sconta un certo calo di tensione verso la metà e risulta un po’ forzato e retorico nella svolta finale, e al tempo stesso abbastanza confuso nell’ucronia che quest’ultima genera. Nobili premesse racchiuse in confezione extralusso non bastano quindi a dare vita a un capolavoro, bensì a un’opera dignitosa, ma non all’altezza delle sue ambizioni.
Sempre una donna al centro della vicenda in Through the Wall di Rama Burshtein, presentato nella sezione Orizzonti. A quattro anni dal promettente esordio veneziano de La sposa promessa, la regista israeliana torna sul tema del matrimonio raccontando la vicenda di Michal (Noa Koler), una trentenne terrorizzata dall’idea di restare sola, e per questo decisa a trovarsi un marito a qualunque costo. Nel ritrarre la protagonista e le sue ossessioni con toni leggeri e una non celata simpatia, la Burshtein perde inevitabilmente l’occasione di approfondire la riflessione sulla difficoltà della donna, all’interno della comunità ebraica ortodossa, di vivere un’esistenza soddisfacente a prescindere dai legami con l’uomo, di bastare a se stessa anziché gettarsi fra le braccia del primo che passa; condizione rafforzata dalle convinzioni religiose e da una morale comune ancora intrisa di maschilismo. Tutto si risolve infatti in una commedia piuttosto verbosa, dal ritmo fiacco e solo a tratti divertente, in cui gli eccessi grotteschi portano a un finale da fiaba per nulla azzeccato. Un passo indietro rispetto alla delicatezza de La sposa promessa, nonostante l’interpretazione effervescente della Koler.