I am Belfast: la recensione
Uno sguardo che documenta, ricorda, soffre, ama e sogna
Fra le anteprime della dodicesima edizione del Biografilm Festival spicca I am Belfast del regista e produttore nordirlandese Mark Cousins, noto per l’imponente documentario The Story of Film: An Odyssey (oltre 900 minuti dedicati alla storia del cinema). Qui l’intento documentaristico si fonde però alla dimensione del lirismo romantico ed elegiaco di una poesia d’amore per una città segnata da cicatrici indelebili. Cousins scinde e ricompone la dimensione sonora e quella visiva, offrendo al pubblico una passeggiata con la personificazione della città (Helena Bereen), raccontata attraverso il dialogo in voice-over tra il regista (mai inquadrato) e la città stessa, che pure non muove le labbra. Il doppio binario comunicativo, con il trait d’union della pregnante colonna sonora di David Holmes, consente di evitare il didascalismo, anche grazie alla scelta di non affrontare la storia della città in ordine cronologico.
Si procede invece con una tecnica impressionistica: la magistrale fotografia di Christopher Doyle (collaboratore abituale di Wong Kar-Wai) illumina gli affreschi letterali e metaforici di Belfast, passando dalle ciminiere delle manifatture tessili alla collina di sale alle porte della città, dalle tonalità intense di case e strade dopo la pioggia ai celebri murales di protesta nel Gaeltacht Quarter. Passeggiando con (e per) la città, Cousins incanta lo spettatore con una miscela di scene quotidiane, paesaggi onirici e tocchi d’ironia, senza tuttavia glissare sulle profonde ferite urbane. I Disordini sono raccontati attraverso storie evocate da luoghi specifici, inquadrati nel loro aspetto odierno, ma con una narrazione sonora che restituisce il dolore per le tragedie del passato: il murale di New Lodge, quartiere cattolico, che raffigura la facciata del pub McGurk, distrutto da una bomba; Falls Road, assediata dai soldati; le zone del centro in cui l’IRA fece esplodere 26 bombe nel cosiddetto Bloody Friday, il 21 luglio 1972.
Ma pur sottolineando l’enorme peso della storia nordirlandese, I am Belfast non sceglie mai il cinismo come cifra stilistica: Cousins privilegia invece una dimensione di affetto e dolore sincero per la città natia, con un anelito di speranza che s’incarna a tratti in pennellate di realismo (come il dialogo tra le due anziane amiche Rosie e Maud, una cattolica e una protestante, che ricompongono le divergenze religiose a suon di sarcasmo e f-words) e a tratti in scene surreali come il funerale dell’Ultimo Estremista, preludio fiducioso a una ripresa futura. Se da un lato la telecamera tende a indugiare eccessivamente su sequenze come questa, dall’altro il ritmo complessivo risulta ben bilanciato, anche grazie ai filmati d’archivio, alle scene tratte da film d’epoca e alle canzoni (da Connie Francis a Van Morrison). Il risultato finale è un ritratto sentito che trasmette l’essenza di una città affascinante e difficile, “dolce e salata” come la terra su cui sorge, alla confluenza tra il fiume Lagan e il mare d’Irlanda.
Alice C. | ||
8 1/2 |