EditorialediGiampiero Raganelli,4 Marzo 2016
Verso Sud, nel Wyoming sfuggendo dalla critica cinematografica italiana
Il grande cinema in una stanza
In sala da un mese The Hateful Eight, l’ultimo Quentin Tarantino, un evento per il 70mm, nelle poche sale attrezzate, l’amore per la pellicola che ormai appartiene al passato e il recupero del formato bigger than life dei kolossal Cleopatra o Ben-Hur. Il cinema di Tarantino è fatto della stessa sostanza dei suoi sogni cinematografici, lo sapevamo. Un appoggio autorevole, con Paul Thomas Anderson e Christopher Nolan, a una battaglia di quattro storici del cinema – la classica lotta contro i mulini a vento – contro lo sbrigativo abbandono della cellulosa in favore di un digitale più economico, ma la cui superiore definizione è ancora da dimostrare.
The Hateful Eight è un film che spiazza, beffardo. Chi si aspettava orizzonti sconfinati e paesaggi esaltati dal 70mm, si ritrova un Kammerspiel claustrofobico. In Italia il film ha avuto frettolose stroncature da critici blasonati, da dizionario, mettendo a nudo preconcetti, categorie di giudizio opinabili, autoreferenzialità quando non spocchia, a prescindere dal sacrosanto diritto al “de gustibus non est disputandum”. Pino Farinotti, su Mymovies, si impersona addirittura in John Ford con il ruolo di maestrina dalla penna rossa che rimprovera Tarantino di verbosità, mancanza di equilibrio narrativo, misoginia, e ovviamente eccessi di violenza e sconcezze a partire dall’incriminata fellatio. Come riesumare Manzoni per giudicare Aldo Nove. E come voler stabilire assiomi di stile quando già l’imprescindibile Peckinpah infarciva i western di violenza e sadismo molto più di Tarantino. E Farinotti, che in un memorabile fuori onda della trasmissione Report si era definito “il più grande esperto di cinema del mondo”, fa dire a Ford di essere l’inventore del western. Peccato che il pioniere del genere, The Great Train Robbery, risale al 1903, quando Ford aveva 9 anni. O che Allan Dwan facesse già western a partire dagli anni ‘10. Goffredo Fofi, su Internazionale, ironizza ancora sulla barbarie di Tarantino, emblema della tanto vituperata postmodernità. Evidentemente sbrigativo tanto da citare il whodunit hitchcockiano, quando il classico meccanismo della detective story era proprio ciò che il regista inglese evitava. A parte poche eccezioni (Caccia al ladro), nei film di Hitchcock è subito chiaro l’assassino. Tarantino ha semmai ereditato dal maestro il concetto di McGuffin, il pretesto narrativo (qui la lettera di Lincoln). Paolo Mereghetti vede un Tarantino annegare nelle proprie ossessioni, e partorire un topolino dalla montagna del 70mm, cosa in realtà consapevole e voluta.
Non si tratta di incapacità di comprendere nuovi linguaggi da parte di chi vive con schemi mentali obsoleti. Nessuno schema critico può mai dirsi superato e Tarantino, in auge dai primi anni Novanta, non è Miguel Gomes. Sembra di essere tornati ai tempi in cui il pur grande Lino Miccichè non accettava Cuore selvaggio per essere infarcito dal verbo fuck declinato in tutti i modi. E certo non aver capito l’importanza di David Lynch, è stato errore assai grave. Legittimo il moralismo, ma non può essere chiave di lettura critica.