Ryuzo and His Seven Henchmen: la recensione
Una commedia "geriatrica" sugli yakuza per un Kitano senza pretese
La parabola di Kitano Takeshi è tra le più inafferrabili degli ultimi vent’anni di cinema giapponese. Dopo un debutto folgorante (Violent Cop), è stato l’autore nipponico più amato e premiato degli anni ’90, grazie a film di yakuza portati a vette autoriali senza precedenti (Hana-bi, Sonatine), potendosi anche permettere parentesi liriche (Dolls) e divertissement (Zatoichi) con gli stessi, incredibili risultati. Poi, la “trilogia del suicidio artistico” – molto interessante per scoprire il rapporto di un uomo con la sua arte, ma forse meno dal punto di vista cinematografico – alla quale seguono i due Outrage, con un Kitano tornato al genere che lo ha reso famoso, ma senza la carica dirompente di una volta. Quest’ultimo lavoro, Ryuzo and His Seven Henchmen, sembra proseguire la discesa libera del regista se si pensa che, dopo essere uscito in Giappone nell’aprile del 2015, il film lo si è visto in Europa solo nei festival (minori) di Varsavia e Londra.
In realtà, il tutto si spiega con il fatto che si tratta di una commedia action senza alcuna pretesa autoriale e con un’unica idea alla base, quella della rivalsa della vecchia scuola yakuza contro i nuovi gangster, molto più business oriented. Proprio in virtù di questa totale non pretenziosità, però, il film funziona e diverte, anche grazie a un’ottima scelta del protagonista, quel Fuji Tatsuya che rimarrà nell’immaginario cinematografico come il volto maschile di L’impero dei sensi di Oshima. Fuji ha ancora grinta e carisma da vendere e gigioneggia simpaticamente nel ruolo di uno yakuza in pensione che, con la famiglia del figlio in vacanza, è finalmente libero di riunire i suoi storici compagni di scorribande e mettersi contro la gang del quartiere per aiutare la nipote di uno di loro. Per completare il cast, Kitano richiama suoi vecchi collaboratori e si ritaglia per lui il ruolo secondario dell’ispettore di polizia, simpatizzante della vecchia guardia.
Pur dimostrando nostalgia per il vecchio cinema di genere (con flashback girati in bianco e nero nello stile degli yakuza eiga degli anni ’60) e parteggiando apertamente per il suo reparto geriatrico – i nuovi gangster sono caricature le cui ambizioni vengono sempre deluse – Kitano non mitizza i protagonisti. Procede infatti a una demolizione sistematica di quell’aura solenne che avvolgeva la yakuza tradizionale, partendo dalle carenze fisiche dei sette, per prenderne in giro tutta l’inadeguatezza. L’esilità narrativa è sopperita da una comicità che costeggia il nonsense, da sempre parte della cifra stilistica di Kitano (da Getting Any? a Glory to the Filmmaker!), risultando alle volte genuinamente divertente – come quando Ryuzo deve segnalare un cinque con la mano, scordandosi di non avere più due dita – altre al limite del cattivo gusto, come i ripetuti gag sulle flatulenze. Nonostante una durata eccessiva, ne esce fuori un prodotto leggero e piacevole, ma sostanzialmente innocuo da tutti gli altri punti di vista; forse l’ennesimo sberleffo di un regista che ha sempre voluto tradire le aspettative degli spettatori.
Scritto da Eugenio De Angelis.
Eugenio D. | ||
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