Roma 2015. Mistress America e altre recensioni
La Festa del Cinema parte con "Truth" e "Mistress America"
Per la sua decima edizione, la Festa del Cinema di Roma ritorna alla denominazione originale. Film d’apertura è l’americano Truth, che segna l’esordio dietro la macchina da presa di James Vanderbilt, già sceneggiatore dei due The Amazing Spider-Man di Marc Webb. Un classico thriller hollywoodiano d’inchiesta giornalistica di dichiarata impronta liberal, basato sulle memorie scritte dalla produttrice televisiva Mary Mapes, qui impersonata dalla sempre professionale Cate Blanchett, che recita fianco a fianco con l’icona del genere per eccellenza Robert Redford, nei panni del cronista e conduttore Dan Rather. Trasponendo sul grande schermo tutti i fatti che portarono alla realizzazione di uno dei più controversi reportage giornalistici della storia politica americana recente, con il quale la Mapes e il suo staff indagarono sui favori concessi al futuro presidente Bush al tempo in cui prestò servizio nella Guardia Nazionale, il regista sembra puntare sull’usato sicuro – storia solida, ottimi interpreti (accanto ai due protagonisti spicca il grande Stacy Keach, nel ruolo di un ex ufficiale anziano e malato), discrete caratterizzazioni – senza però mostrare particolare personalità registica, e scivolando verso il finale nella retorica più spinta, lontana dall’asciuttezza di toni del capolavoro del filone Tutti gli uomini del presidente.
Ben più fresco ci è apparso Mistress America di Noah Baumbach, un nome una garanzia nel cinema americano indipendente in fatto di commedie incentrate sull’incontro-scontro generazionale fra adulti immaturi e insoddisfatti e ragazzi insicuri e pieni di buone intenzioni. Qui il confronto è fra la timida diciottenne Tracy (Lola Kirke), matricola di un college newyorkese, e l’esuberante trentenne Brooke (Greta Gerwig), figlia del compagno della madre, donna che nasconde dietro a un’ostentata sicurezza e a una progettualità senza freni la propria natura fondamentalmente inconcludente. Mantenendo il tono leggero, ma con retrogusto amaro, tipico del regista, il film mostra con efficacia l’evoluzione del rapporto fra Tracy e Brooke, con la prima che inizialmente mitizza la seconda, per poi accorgersi delle sue debolezze e lacune emotive, fino al chiarimento a casa di un ex di Brooke, in cui tutti sono messi di fronte alle proprie meschinità e sono costretti a trovare un capro espiatorio, in un girotondo di battute acide e dialoghi brillanti degno della migliore screwball comedy. La morale sembra essere un invito a esprimere sé stessi senza ricorrere a maschere, inseguendo un sogno americano che non risiede tanto nel successo, quanto nel coraggio di dedicarsi alle proprie passioni, e trova l’adeguato riscontro nella prova appassionata di tutto il cast (con la Gerwig come al solito mattatrice) e nella splendida colonna sonora synthpop anni ’80, con l’evocativa Souvenir degli Orchestral Manoeuvres in the Dark come tema principale.