Babadook: la recensione
Babadook è l’opera prima di Jennifer Kent, nonché l’adattamento di un suo precedente corto. Il film è un piccolo gioiello del cinema indipendente che dimostra come sia possibile realizzare un horror intelligente anche servendosi di pochi mezzi. Un’ambientazione essenziale e una raffinata fotografia, unitamente alla maestria dei protagonisti, sono i pochi ingredienti di cui si serve la Kent per realizzare un horror psicologico, che ha però l’obiettivo di essere anche altro.
La storia si struttura affiancando ai tratti tipici dell’horror il racconto del dramma esistenziale e familiare che vivono i protagonisti: Amelia, la madre, e Samuel, suo figlio, un bambino che rivela di avere seri problemi comportamentali. La convivenza non è facile, complice anche il progressivo isolamento, e Amelia sembra avvicinarsi sempre di più a un crollo. Pur concedendo a questa parte del racconto un ampio respiro, la regista si rivela in realtà particolarmente abile nel sovrapporre e intrecciare tra loro i due livelli che finiscono così per potenziarsi a vicenda; il disagio dei personaggi è quello di un vuoto esistenziale espresso magistralmente attraverso sequenze frammentate e silenzi prolungati che, nel loro ripetitivo svolgersi, trasmettono un crescente senso di inquietudine, così come l’attenzione posta su gesti apparentemente quotidiani come quello del massaggiarsi la guancia, o la testa, di Amelia, oppure lo zapping frenetico. Sono, questi, tutti elementi che se da un lato servono a descrivere un malessere progressivamente sempre più intenso, dall’altro hanno il compito di preparare il terreno ai successivi sviluppi, in una tensione crescente sorretta anche dalla tetra fotografia.
L’arrivo del mostro si inserisce alla perfezione all’interno di queste dinamiche. Il Babadook è un demone che sembra appena uscito dall’incubo di un bambino, così come descrive abilmente il libro di favole che serve a evocarlo; la sua presenza è però nel corso di tutto il film sempre molto sfuggente: sono molto pochi i momenti in cui riusciamo a distinguerne le fattezze nel buio, o in un riflesso. Sono piuttosto le atmosfere a introdurci gradualmente all’interno di un mondo dove l’assenza di sonno apre le porte all’incubo e al delirio.
In effetti Babadook, almeno per quanto riguarda le scene horror, da molto spesso l’impressione di essere una rappresentazione di un brutto sogno, letteralmente. Alcuni elementi a cui il film dà risalto, infatti, rimandano a una simbologia molto esplicita: in particolare, la casa (al cui interno il film è quasi completamente girato), la camera da letto e la cantina. Riferimenti tanto palesi, da far sospettare quasi una resa un po’ scolastica del tema, anche se poi nell’economia complessiva sono ben utilizzati. A sottolineare questo aspetto, anche alcune frasi topiche, ripetute più volte nel corso della vicenda (come Let me in) a voler indicare come la dimensione reale in cui il film si svolge è quella dell’interiorità più profonda. E d’altra parte il sorprendente finale, del tutto atipico per un horror, va nella stessa direzione di senso.
Scritto da Rossella Carpiniello.
Rossella C. | Alice C. | Davide V. | Eugenio D. | Giacomo B. | Sara M. | Sara S. | ||
8 | 7 1/2 | 6 1/2 | 7 1/2 | 8 | 7 1/2 | 8 |