Vizio di forma: la recensione
Folta chioma afro, basettoni e sguardo perso tra i fumi dell’erba: così si presenta il protagonista di Vizio di forma, ultima fatica di Paul Thomas Anderson, che torna a dirigere Joaquin Phoenix due anni dopo The Master. Private eye con la pupilla dilatata e un look che lo rende più simile a John Lennon che a Philip Marlowe, Doc Sportello viene incaricato dalla sua ex di indagare sul nuovo amante di lei, un miliardario in crisi mistica, ritrovandosi al centro di un intrigo criminale che coinvolge motociclisti nazisti, ex musicisti dati per morti e una misteriosa organizzazione nota come Golden Fang.
Non è facile riassumere in poche parole la delirante trama del romanzo di Thomas Pynchon dal quale è tratto, con qualche libertà, il film. È un noir lisergico, con un detective capellone che cerca di fare la cosa giusta malgrado la dipendenza dalle droghe – un po’ alla maniera de Il grande Lebowski – sullo sfondo di una Los Angeles del 1970 in cui l’utopia hippie, sotto il peso dei propri eccessi, sta per cedere alla paranoia dell’era di Nixon, come descritto in Paura e delirio a Las Vegas. Lo stile e le tematiche del film richiamano la New Hollywood, riprendendone i tempi dilatati e l’estrema libertà narrativa: se il nume tutelare rimane Robert Altman, nella sua scanzonata versione di Marlowe de Il lungo addio, non mancano riferimenti ad altri classici del periodo, con la minorenne scappata di casa simile a quella di Bersaglio di notte e la presenza incombente dell’FBI come accade in Tornando a casa, risolvendo però lo scontro fra istituzioni e controcultura in chiave grottesca, con lo stesso spirito goliardico dei fumetti underground dell’epoca. Per le sequenze comiche, specie quelle in cui appare il redivivo Martin Short, fonte di ispirazione dichiarata sono infine le opere di Zucker-Abrahams-Zucker.
Vizio di forma risente di una sceneggiatura di esagerata complessità. Risulta difficile non perdersi fra le numerose sottotrame che si accumulano, lasciando alcuni personaggi appena abbozzati e giungendo talvolta a false soluzioni, ma il regista sembra divertirsi a confonderci con piste sbagliate e divagazioni fuorvianti, come se volesse coinvolgerci negli effetti di un trip, in sintonia con l’atmosfera psichedelica della vicenda. In compenso, sul piano visivo il film è eccellente, con una fotografia in negativo 35 mm dai colori caldi che richiama l’estetica anni ’70, mentre i costumi vintage e la grande colonna sonora – che alterna sonorità d’epoca (da Neil Young a Sam Cooke) alla partitura originale di Jonny Greenwood – denotano estrema ricercatezza formale. Scegliendo il punto di vista di un perdente disincantato ma non cinico, Anderson conferma le sue ambizioni autoriali di narratore adulto e sarcastico della Storia americana, con un altro racconto corale di una nazione nei suoi cambiamenti epocali, che stempera il rimpianto in un’amara ironia; ma soprattutto, le sue grandi doti di direttore d’attori: accanto all’ottimo Phoenix, svettano con raffinate prove in sottrazione l’impenetrabile Katherine Waterston e il granitico Josh Brolin, che demitizza lo stereotipo di law and order facendo il verso a John Wayne.
Davide V. | Edoardo P. | Giacomo B. | Giusy P. | Sara M. | ||
8 | 8 | 7 | 7 | 8 |