Mad Men 7×01: la recensione
Settima stagione, la conclusiva: anche Mad Men dovrà, prima o poi, giungere alla fine. Lo farà con 14 episodi spezzati in due mezze stagioni, che si concluderanno nel 2015. Time Zones è il titolo della première, scritta dal creatore Matthew Weiner per la regia di Scott Hornbacher.
Narrativamente parlando, sono passati solo due mesi dal finale della sesta stagione. La ripresa è in sordina, e si avvia con varie false partenze: l’intro è affidata a Freddy Rumsen, che ci conduce nel cuore del marketing con un classico esempio di racconto pubblicitario; poi l’ufficio di Madison Avenue riprende il suo solito tran tran come se nulla fosse successo tra 1968 e 1969: Peggy Olson non solo non ha fatto carriera, ma ha anzi un nuovo capo che la odia; Ken Cosgrove (che ha davvero perso un occhio) sembra sull’orlo dell’esaurimento nervoso, mentre gli impiegati continuano a trescare con le segretarie e Stan ha la solita barba.
Ma il 1969 esplode d’un tratto in un riff psichedelico e nelle mattonelle colorate dell’aeroporto di Los Angeles, dove un impassibile Don Draper si accinge a visitare Megan in quella che presto si rivelerà come l’ennesima tappa dell’impossibile vita matrimoniale “bicoastal”.
La sesta stagione aveva visto Don Draper ripercorrere le tappe dei fallimenti già vissuti nell’arco narrativo della sua esistenza. Incapace di essere fedele a una moglie spesso e volentieri prevaricata, il Don del 1968 sprofondava negli abissi dell’alcol e veniva allontanato dalla dirigenza della sua società. La nuova stagione lo ritrova nell’occhio del ciclone, intento come sempre a nascondere la propria identità: davanti a Megan finge andare in ufficio, lasciandola all’oscuro della nuova situazione; e al tempo stesso usa Freddy Rumsen come prestanome per far arrivare le proprie idee alla sua stessa agenzia, all’insaputa di Peggy che non riesce a spiegarsi l’improvvisa bravura di Freddy.
Parlando invece di “time zones”, è tutt’ora evidente come Don venga proiettato sul presente della storia da un tempo ormai passato. Nell’aspetto e nello stile di vita rimane ancorato ai valori degli anni ’50, e si contrappone alla natura giovanilista di Megan, ragazza alla moda che si atteggia ora a stella del cinema e non sembra avere per niente voglia di sottostare alle abitudini del marito. Megan vive sulle colline di L.A. e sogna una casa con la piscina; conduce la sua vita californiana da single, mentre Don si sta trasformando in un fastidioso fantasma dei ricordi newyorkesi: per Don e Megan non esiste più una vera e propria zona condivisa.
La storyline di Don procede senza grandi sorprese, fatta eccezione per l’inaspettato refolo di fedeltà coniugale che lo porta a rifiutare l’avance di Neve Campbell, resuscitata dagli anni ’90 per farsi (provvisoriamente?) respingere dal playboy più amato/odiato della serialità televisiva.
Interessanti le backstories degli altri personaggi: incontriamo un Roger Sterling che cavalca l’onda della controcultura hippie a suon di ammucchiate e, contestatario più dei suoi stessi amici fricchettoni, non accetta di farsi fare la morale dalla figlia, ora convertita a un’imprecisata setta (Scientology?). Ted Chaough è come al solito pallido, stressato e infelice per via di Peggy, mentre Pete Campbell ha già subito la metamorfosi in losangelino doc, salutista e abbronzato.
Molto promettente la vicenda di Joan Harris; sottoposta a umiliazioni sessiste di ogni sorta e trattata da subalterna da coloro che in realtà sarebbero i suoi sottoposti (nello specifico, Ken), mantiene la calma e prende in mano la situazione, mettendo sotto tutti. La vedremo governare la compagnia prima del finale?
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