The Wolf of Wall Street: la recensione
Gli imperi crescono, raggiungono l’apice e crollano rovinosamente, come insegnano i corsi e ricorsi storici, portando con sé nel crollo la follia e la perdita del contatto con la realtà dei protagonisti. Martin Scorsese ha raccontato l’ascesa e il rovinoso declino di personaggi grandiosi e del loro “piccolo” impero in più di una mirabile occasione: si pensi a Gangs of New York e soprattutto a Quei bravi ragazzi e Casinò. A metà strada tra l’innegabile fascino suscitato da questi grandiosi personaggi e una sorta di condanna che non deriva mai da uno sguardo moralista ma che rimane, diciamo così, nel recinto dell’oggettività e degli sviluppi dei fatti raccontati, il regista italoamericano ci ha abituati a personaggi enormi nella loro fascinosa tragicità, resi ancor più grandi da uno stile magniloquente e furioso, in uno degli esempi più calzanti di come lo sguardo cinematografico diventi di per sé una visione del mondo. The Wolf of Wall Street può essere considerato una sorta di riaggiornamento in chiave di commedia delle due epopee mafiose, in particolare di Casinò: si passa dal mondo dorato dei gangster e dei casinò di Las Vegas all’universo altrettanto patinato, ma anche nella sostanza più squallido – oltreché altrettanto criminale – dell’alta finanza e della borsa, quel mondo in cui il potere e la ricchezza non derivano dalla produzione di beni, ma dall’impalpabile corrente delle quotazioni e dagli immaginari fiumi di denaro su cui si specula costruendo prolifici castelli in aria.
The Wolf of Wall Street è basato sull’autobiografia di Jordan Belfort, interpretato dal fido Leonardo Di Caprio, broker di primo piano tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, oltre che consulente di Terence Winter per la sceneggiatura. Si ripercorre la carriera di Belfort dai primi passi nella banca Rotschild – interrotti dalla crisi del 1989 – alla risalita iniziata in un piccola finanziaria di provincia e culminata nella fondazione della Stratton, protagonista assoluta del brokeraggio e della speculazione sulle cosiddette “penny stock”, cioè titoli fuffa. Si racconta la sua vita di eccessi, lusso, banconote buttate nel cesto, alcool, donne e soprattutto droga, fino al declino delle indagini subite, del carcere e dell’obbligo a collaborare come informatore del FBI.
Se il mondo della mafia raccontato più volte da Scorsese era rappresentato come un mondo sì eccessivo e “unico”, ma collegato alla realtà del mondo intorno e comunque realistico, l’alta finanza impersonata da Belfort pare invece come un universo irreale e surreale, quasi fosse un altro pianeta entrato in collisione momentanea col nostro: con questa chiave di lettura viene motivato il costante tono ridanciano da commedia degli eccessi, con cui la realtà è affrontata sì efficacemente, ma attraverso la mediazione e la lente ingrandente e deformante del riso, impersonata dal bravissimo, per la prima volta alle prese con un ruolo più sfaccettato, attore/personaggio Jonah Hill, nel ruolo del vice e amico intimo di Belfort. Hill, si sa, è esponente di punta del clan Apatow, il cui stile comico non è assente da questo film, non solo per l’immediato collegamento tra l’attore e la sua maschera più tipica, ma anche per l’insistenza che crea un cortocircuito ironico sugli effetti dell’edonismo spinto agli eccessi e di passatempi come droga, alcool e la fissazione sul sesso. Allo stesso modo, a conferire un senso di non realtà del mondo della finanza, contribuiscono quelle sequenze in cui la stravaganza eccessiva di ciò che viene rappresentato va a braccetto con la tipica furia stilistica del regista: così, accompagnati dalle carrellate laterali, dal montaggio scatenato e dalla consueta insistenza scorsesiana sulla varietà della colonna sonora, è possibile veder passeggiare un leone tra le scrivanie, oppure usare dei nani come freccette, o finire la giornata lavorativa ballando al ritmo di una banda di majorette in topless. Un mondo drogato, così come drogata è la percezione della realtà: in questo modo è un po’ come se lo spettatore consumasse assieme ai protagonisti le tonnellate di cocaina e di qualuude (una sorta di co-protagonisti del film) che scorrono nel film e condividesse con loro gli effetti di scollamento dal reale.
Realtà che nei suoi elementi più amari, dannosi e pericolosi fa capolino nella mente del protagonista e dei suoi sodali, per venire subito accantonata, come un fastidioso presagio considerato ancora troppo lontano e indefinito nel tempo e perciò ignorato e scacciato immediatamente dalla mente, e che rimane quindi nel fuori campo degli accenni e delle frasi buttate lì: per esempio, mancano riferimenti alle vittime della ricchezza di Belfort, così come il pericolo Aids dovuto ai numerosi rapporti randagi è un’inquietudine subito scacciata dai veloci accenni con cui la voce narrante (dello stesso Di Caprio, in un altro stilema caro all’autore) fa riferimento all’assunzione di pennicillina. Allo stesso modo, le indagini del FBI sono sottovalutate, considerate alla stregua di fastidiose punture di zanzare d’estate. Anche questa aderenza alle sensazioni e alla mente del protagonista, inquinata dalla grandezza e dal potere, era già presente nelle epopee mafiose del passato, ma pure da questo punto di vista traspare una sensazione di maggiore inconsapevolezza e di una più evidente lontananza da quel pianeta Terra con cui l’universo dorato ed eccessivo del protagonista sembra entrato in collisione.
Abbiamo parlato di collisione tra due mondi: collisione che ha avuto effetti negativi tanto per il mondo del protagonista, che, accantonamento dopo accantonamento, alla fine ha dovuto pagare i conti, quanto per tutti noi, come dimostra l’ultima inquadratura, feroce e beffardamente nichilista: Belfort è tornato in sella insegnando i trucchi del mestiere a una platea di gente comune, che lo guarda rapita e incantata, espressione del desiderio di molti di poter ripercorrere le orme di quei personaggi che hanno causato, arricchendosi, la crisi finanziaria: i loro valori e i loro stili di vita sono diventati i nostri, sembra volere accennare Scorsese in un finale che beffardo ci lascia l’amaro in bocca, dopo averci nutriti per tre ore del troppo saporito, e per questo imperdibile e indimenticabile, rutilante, magniloquente e urlato grande cinema. Sarà innegabilmente un po’ di maniera (e con una manciata di piccoli errori sintattici, come un paio di passaggi di montaggio non fluidi e alcuni sfondi non ben definiti), ma The Wolf of Wall Street rimane uno dei risultati più efficaci di questo inizio secolo di Scorsese, uno di quelli che non sfigura con i suoi grandi classici, a partire proprio da Casinò, di cui costituisce – soprattutto a livello stilistico – una sorta di remake-riaggiornamento in chiave comica, non privo di elementi parodici.
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Scritto da Edoardo Peretti.