American Hustle: la recensione
Un gioco di specchi di David O. Russell. Con gli attori giusti per non specchiarsi
Some of this actually happened. Insomma: sarebbe una truffa dire che è proprio tutto vero, anche se lo spunto iniziale di American Hustle di David O. Russell è l’operazione Abscam, con cui negli anni Settanta l’FBI incastrò davvero alcuni membri del congresso avvalendosi di una coppia di truffatori. Nel film, uno dei due, Irving (Christian Bale), è così avvezzo a esibire un’ingannevole immagine di sé, che il prologo lo sottolinea riprendendolo davanti a uno specchio nell’atto di approntare un complesso riporto in stile Elvis maturo. Ma basta una mano in testa da parte dell’agente Richie DiMaso (Bradley Cooper) per scompigliare la criniera e scoprire la calvizie che avanza: non fa forse questo l’FBI, scoprire la verità? Anche: ma a suon di bugie. Così, Irving e la bella amante ufficiale, Sidney (Amy Adams) sono assoldati per curare, al servizio della giustizia, i servizietti a cui sono adusi da professionisti dell’inganno non autorizzato: falsificazioni, finte promesse, identità farlocche, spostamenti di somme di danaro. All’uopo collabora anche uno pseudo-sceicco, mentre il malavitoso è vero (Robert De Niro) e la mina vagante è la moglie di Irving, Rosalyn (Jennifer Lawrence): fianchi e bocca larghi, ciglia e lingua lunghe.
LA MACCHINA CHE FA PRESA – Quello di David O. Russell è un cinema di confidenza, più che di intimità. Confidente il piglio stilistico, a tutti i livelli possibili: dalla sicumera dei movimenti della macchina da presa, che con sprezzatura riescono a sdrammatizzare anche gli zoommoni da melodramma, alla scaltrezza del racconto, che s’avvia in situazione e non lesina ellissi con annessi flashback di recupero; fino alla colonna sonora, fracassona nella presenza e vintage nelle atmosfere (Bee Gees, Elton John, Electric Light Orchestra), con slanci di elegante empatia musicale (Jeep’s Blues di Duke Ellington, con cui Irving e Sidney trovano la prima intesa emotiva, a partire da una scelta di stile) e con pezzi scelti ad hoc per commentare il carattere dei personaggi (Live and Let Die di Paul McCartney and Wings, cucito come una veste attillata sulla pelle di Rosalyn – ipse dixit David O. Russell). Confidente anche lo sguardo del regista nei confronti dei propri personaggi: combattono, come la moglie tenacemente attaccata al marito nonostante le cornificazioni, disposta a perdonarlo in négligè; agiscono d’impulso, nonostante siano tutori dell’ordine, come l’agente FBI DiMaso che prende a cornettate del telefono in fronte il proprio superiore pur di avere il via libera ai propri piani; hanno cuore, come Irving/Bale che si sente in colpa per aver trascinato il sindaco di New Jersey (Jeremy Renner), originario del Bronx come lui, in un affare compromettente, o Sidney/Adams, che mente e stramente, ma proprio non simula orgasmi con terzi, pur di restare amante fedele.
LA STANCATA – Personaggi belli per umanissime brutture, dunque, pettinati à la page (i bigodini di Bradley Cooper), rivestiti di panni glam (le giacche a righe di Carmine Polito/Jeremy Renner) o svestiti con modaioli ammiccamenti (la vertiginosa scollatura di Amy Adams). Loro, prima di tutto, con la propria tricologia rivelatrice (Jeremy Renner col capello più carismaticamente improbabile) e la loro ecologia, un contesto sociale fatto di rari ripiegamenti domestici e tante esposizioni sociali. Più che una stangata, ossia il classico film sulla truffa perfetta o l’ennesima digressione cinematografica sul mottetto l’apparenza inganna, il film è una stancata, un perpetuo fiaccarsi e ripartire, un ritrovare energie di genuina interiorità, da parte di chi è abituato a giocar d’esteriorità o coperture. Da sotto agli occhialoni scuri di Christian Bale vengon fuori occhi stanchi, e dal taschino della giacca pillole per il cuore; Jennifer Lawrence psico-labile piange sulla spalla del primo che capita ad una festa; Amy Adams si logora fino a spifferare la vera identità; Bradley Cooper confessa indistintamente amore e aggressività.
C’ERA UNA VOGLIA – Non c’è, dunque, lo scandaglio psicologico del dramma, quanto una serie di erosioni della superficie; non la profondità degli affetti, quanto la prossimità di uno sguardo vicinissimo, ma pur sempre over, fuori campo come la voce di Christian Bale; incline, dunque, a commuoversi per amichevole contiguità, ma anche a sorridere con distacco ironico di goffaggini, difettucci e situazioni al limite del grottesco, come quelle di Bradley Cooper col proprio boss o di Jennifer Lawrence da casalinga disperata.
Se proprio la bionda attrice incarna – eccome, se incarna – il range tonale di American Hustle, riuscendo a essere allo stesso tempo inquieta e divertente, pericolosa e brillante, Bale e la Adams s’inseriscono con intelligenza nell’area di rischio prevista per i loro personaggi dall’attenta scrittura (molto dialogata) del regista di The Fighter e Il lato positivo, d’altronde alle prese con un cast di fedelissimi, al quale ha inteso affidare la sensibilità di muoversi nel gioco di specchi e distanze: un design emotivo impeccabile.
Fuori da schemi emotivi e di genere, American Hustle di David O. Russell lustra a dovere il falso specchio del cinema, coniugando fiction e credibilità, lasciando che resti umano anche il poco verosimile: come afferma Irving, “la gente crede a quello che vuole credere”, anche se solo qualcosa è successo davvero.
Continua a errare su Facebook e Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.
![]() | Davide V. | Edoardo P. | Giusy P. | Sara M. | ![]() |
7 | 7 | 5 | 7 |
Scritto da Antonio Maiorino.
Lascia un commento

Finalmente l’ho recuperato!
Film indubbiamente ricco, sia nella forma che nel contenuto, sontuoso, ma non privo di qualche difetto strutturale.
Ho apprezzato molto l’idea di ritrarre i personaggi in una luce grigia, senza schierarli apertamente dalla parte dei buoni o dei cattivi, ma mostrandone tutte le sfaccettature anche più sgradevoli, ed evitando ogni tentazione moralistica.
Ho amato la ricostruzione d’epoca, l’utilizzo “a tema” della colonna sonora e la recitazione degli attori, con una Amy Adams naturalmente sensuale che fa da contraltare a un Christian Bale innaturalmente bolso.
La sceneggiatura, però, a tratti mi è parsa un tantino verbosa ed esageratamente ingarbugliata, e qualche scelta narrativa troppo improntata al grottesco. Ho trovato, in generale, eccessivi i personaggi di Bradley Cooper e di Jennifer Lawrence, anche se la performance dell’attrice, all’insegna di uno sfrenato istrionismo, è degna di una diva d’altri tempi.
La sequenza più memorabile rimane comunque, a mio avviso, quella della serata dell’inaugurazione del casinò, con il montaggio alternato fra i vari personaggi, dove ogni illusione di controllo sembra esplodere da un momento all’altro, in un climax senza precedenti che riporta al grande cinema hollywoodiano.