The Walking Dead 4×03: la recensione
La specificità del The Walking Dead di Scott Gimple salta subito all’occhio: era evidente già nel bellissimo episodio Clear della passata stagione, lo è sempre più in questa quarta stagione e in modo particolare in Isolation. Gimple adotta infatti un approccio più concettuale e riflessivo rispetto a quello di Mazzara – difficile comunque generalizzare data le vistose discontinuità della terza stagione – che allo stesso tempo non rinuncia al gore né sembra dover finire in un vicolo cieco di noiosa inconcludenza, come per il Darabont della seconda stagione. La domanda di fondo è quella intramontabile da Boccaccio a Camus: l’epidemia, e la conseguente regressione allo stato pre-civile, cosa ci dice sulla natura dell’uomo e dei rapporti sociali? E con Isolation arrivano diverse risposte interessanti ma molto, molto diverse tra loro.
Innanzitutto si continua a focalizzare l’attenzione sulla dicotomia dentro/fuori, nelle sue varie declinazioni: al pericolo esterno, rappresentato da zombie sempre più coordinati nell’ammassarsi a peso morto in un unico punto della già fragile recinzione, si aggiungono vari tipi di pericoli interni, l’epidemia che sta decimando gli abitanti del blocco D, lo squilibrio mentale che aveva già messo fuori gioco Rick per diversi episodi e a cui Tyreese non sembra del tutto immune, le tante istanze individuali che cozzano tra loro. E ora la dicotomia si ripropone anche all’interno della prigione, tra i malati in isolamento e i “sani” che li osservano tra le sbarre, col fazzoletto sulla bocca o impegnati a scavare nuove fosse. Quello che abbiamo cercato di tenere fuori è sempre stato qui con noi, dice Rick, e l’utopia di un’imperturbabile enclave di pace è intimamente destinata al fallimento. Quello che può ancora fare l’uomo è scegliere quale ruolo avere nella storia, da che parte stare, che contributo dare.
Per Hershel , ora che ogni cosa è un rischio, l’unica domanda che si pone è: per cosa vale la pena rischiare? Per aiutare gli altri e alleviarne il dolore – posizione, al di là delle apparenze, limpidamente e pragmaticamente laica, ben lontana dalle derive pietistiche e confusamente religiose dei tempi della fattoria. Ma l’aiutare gli altri può essere interpretato in modi molto diversi: per Hershel è anche farsi sputare in faccia sangue infetto da un Dr. S tutt’altro che in forma; per Carol – rivelazione di fine episodio abbastanza prevedibile, considerando la sua reazione scomposta dopo il dialogo con Tyreese – è dar fuoco a due compagni malati, forse ancora vivi, per scongiurare la diffusione del morbo. Unico risultato certo: fare incazzare oltremodo il suddetto Tyreese e creare una pericolosa frattura tra i leader del gruppo, scazzottata furibonda annessa.
Daryl e Michonne continuano ad essere la silenziosa ed indispensabile forza lavoro del gruppo, preoccupati più di trovare medicine ed altri generi di prima necessità che di alimentare ulteriori tensioni alla prigione. Peccato che la spedizione con Bob e Tyreese venga ben presto ostacolata da un’orda di zombie che blocca la strada, non prima di aver intercettato un misterioso messaggio radio – e, tra parentesi, la scena con le ruote della macchina che slittano sulle teste maciullate non è affatto male, si sappia. Rick, allo stesso modo, cerca di opporre al fervore giustizialista e egocentrico di Tyreese una più equilibrata visione di insieme, che vede come priorità la gestione del gruppo, la cura dei malati, il controllo dei conflitti.
Punti deboli? I soliti noti. Glenn, dopo i consueti colpi di tosse premonitori, è stato confinato in quarantena, il che, si spera, potrebbe variare un po’ quell’insostenibile siparietto di effusioni con Maggie che era ormai diventato l’immancabile “momento Harmony” delle serie. Beth intanto ci dà dentro con l’emotional control, che è l’unica cosa che fa da qualche episodio a questa parte (ed è già un passo avanti perché prima non faceva un bel niente). Ma la grande perplessità che rimane riguarda il personaggio di Tyreese, prima del tutto ininfluente e ora vittima di una caratterizzazione confusa e poco convincente.
Ma siamo comunque fiduciosi; Gimple ha le idee chiare e lo sta dimostrando, con puntate sicuramente non sensazionali quanto le prime della terza stagione, magari a tratti un po’ troppo statiche ma solide e coerenti. E poi ci sono le ruote che slittano sulle teste. Il che fa ben sperare.
Scritto da Barbara Nazzari.
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