Venezia 70. The Zero Theorem: la recensione
Un Gilliam distopico lontano dall'eccellenza
Con The Zero Theorem, in concorso a Venezia 70, il visionario Terry Gilliam torna sui terreni a lui assai congeniali della fantascienza grottesca e distopica, attraverso la parabola di un nevrotico programmatore (un Christoph Waltz lontano dall’arroganza istrionica dei suoi ruoli nel cinema di Tarantino) ossessionato dalla ragione dell’esistenza umana, che cerca di sopravvivere in un mondo dominato dalle corporation.
Il teorema del titolo, una misteriosa formula matematica che il protagonista cerca invano di risolvere nell’attesa di una telefonata che lo renda felice o gli dia le risposte che cerca, può essere interpretato come una metafora della mancanza di motivazioni in una società disumanizzata. Come in Brazil, il protagonista, guardato a vista dai superiori e oppresso dalla responsabilità – per la quale è disposto a sacrificare ogni rapporto umano, fino a raggiungere un’esistenza quasi monastica – trova rifugio dai fallimenti della sua vita al di fuori della realtà; in questo caso, il sogno ha le fattezze tentatrici della bella Melanie Thierry, con la quale si connette in una dimensione virtuale.
L’incipit iniziale, di per sé non disprezzabile anche se poco originale, finisce col perdersi un po’ in una narrazione poco fluida, in cui il talento visivo dell’ex Monty Python non risulta supportato a dovere dalla sceneggiatura. Se convincono alcune soluzioni, dalle quali emerge la carica grottesca dell’autore (il fatto che il protagonista chiami tutti con lo stesso nome per non sprecare neuroni, la prima persona plurale da lui usata per parlare di sé per una totale rinuncia all’individualità), è l’impianto stesso della vicenda a scricchiolare, portando a conclusioni un po’ abusate. Anche sul piano registico le sequenze più riuscite, quelle ambientate nel mondo virtuale, in cui Gilliam scatena la sua fantasia, per quanto spettacolari non aggiungono molto alla filmografia del regista.
Al vertice della catena di comando aziendale, un Matt Damon truccato come Philip Seymour Hoffman, alla stregua di un Grande Fratello dotato di solo potere economico, detta i tempi e le misure di un racconto visivamente ricco ma lontano dall’eccellenza, con il quale la fervida creatività del veterano Gilliam inizia a mostrare qualche segno di stanchezza.
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Giacomo B. | ||
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