Noi siamo infinito: la recensione
Con Noi siamo infinito, lo scrittore e sceneggiatore Stephen Chbosky, al suo esordio dietro la macchina da presa, porta sullo schermo il proprio romanzo più celebre, uscito nel 1999 e divenuto subito cult fra i giovani statunitensi per il suo piglio metà geek e metà indie e per il tono delicato e al contempo acuto e sincero. La scelta vincente di affidare la regia allo stesso autore si accompagna a un casting decisamente riuscito. Emma Watson sfrutta l’occasione per dimostrare il proprio talento anche in un ruolo che si allontana dalla potteriana Hermione, della quale però conserva il carisma e la capacità di tener testa a due co-star maschili di grande abilità, il magnetico Ezra Miller di E ora parliamo di Kevin e soprattutto il ventunenne Logan Lerman, che finalmente può dar vita a un personaggio a tutto tondo, liberandosi dello stigma di eterno child actor e dei panni poco riusciti di Percy Jackson.
Noi siamo infinito è infatti, prima di tutto, la storia di Charlie, un ragazzino che, pur essendo innegabilmente sui generis, riassume in sé un enorme numero di ansie e patemi adolescenziali che molti degli spettatori sentiranno come propri. Segnato da un meta-trauma infantile, Charlie combatte contro visioni e momenti di black-out in cui perde coscienza delle proprie reazioni; ma più che questo aspetto, nelle pagine e sullo schermo emergono la sua tenera vulnerabilità di teenager all’inizio delle superiori e i suoi tentativi di “partecipare” alla vita nonostante la tendenza a mimetizzarsi con lo sfondo (da cui il titolo inglese, The Perks of Being a Wallflower, che per il libro è stato tradotto come Ragazzo da parete).
La pellicola mette in scena un coming-of-age corale, che prende le mosse dall’incontro di Charlie con una sorta di Breakfast Club postmoderno e disincantato: la buddista-vegana Mary Elizabeth, che produce la fanzine Punk Rocky; l’eburnea Alice, amante dei vampiri; ma soprattutto l’autoironico Patrick (Miller) e la sua sorellastra Sam (Watson), di cui Charlie si innamora subito (a modo suo). Sullo sfondo figurano anche i genitori (Dylan McDermott e Kate Walsh), relativamente cool e premurosi, ma incapaci di capire fino in fondo il figlio, e i fratelli Candace (Nina Dobrev) e Chris (Zane Holz).
La figura adulta di riferimento resta però il Professor Anderson, interpretato da un perfetto Paul Rudd, che riesce a comunicare con Charlie condividendo con lui l’amore per la letteratura. Le parole, scritte e lette, sono infatti il Leitmotiv del racconto, narrato in forma epistolare a un anonimo destinatario (“Dear friend”) e ripreso in voice-over nel film; sono poi centrali i grandi romanzi americani, da Il buio oltre la siepe a Il grande Gatsby, ma soprattutto il testo che Charlie stesso sta creando, metaforicamente e letteralmente. “Scrivi di noi”, suggerisce Sam; e sarà proprio la scrittura a fungere da contraltare alla “partecipazione”, consentendo a Charlie di rielaborare le sue paure e le “tappe obbligate” della crescita che si ritrova a vivere senza quasi rendersene conto (lo stordimento da brownie “truccati”, il ballo della scuola, i primi approcci con le ragazze).
Chbosky, già sceneggiatore di Rent, realizza una trasposizione coerente ed efficace che trasmette la centralità dell’esperienza di Charlie senza però trascurare gli altri personaggi. L’attenzione alle difficoltà del protagonista si arricchisce così con la rappresentazione delle problematiche altrui, in particolare quelle legate alla sfera sessuale, trattate con una delicatezza che non scade mai nel volgare, ma nemmeno in un perbenismo patinato. Significativo il parallelo con The Rocky Horror Picture Show, che i protagonisti mettono in scena ogni venerdì sera al cinema locale: è attraverso la riappropriazione del celebre musical che i ragazzi negoziano la propria identità, e il debutto (casuale) sul palcoscenico sarà per Charlie una vera e propria iniziazione verso la consapevolezza della propria performatività effettiva, oltre che linguistica (Tim Curry docet: “Don’t dream it, be it”).
La resa italiana resta complessivamente godibile, pur trattandosi di un film profondamente legato all’America suburbana (nello specifico alla Pennsylvania). Convincente anche Manuel Meli come doppiatore di Lerman (almeno per chi non lo sovrappone a Joffrey di Game of Thrones!). Una nota di merito va anche alla colonna sonora, letteralmente costitutiva della trama, che si dipana a colpi di mixtapes e balli lenti, di Smiths e Sonic Youth, ma soprattutto di David Bowie, che nel giusto contesto permette a Charlie di affermare: “And in that moment, I swear we were infinite”.
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Chiara C. | Edoardo P. | ||
6 | 8 |