AltrodiBlogger Erranti,13 Luglio 2013
Relais: la recensione
L’ultimo appuntamento della rassegna Contrappunti 12/13 ha visto andare in scena, il 5 luglio, nella suggestiva location del Bastione Alicorno a Padova, lo spettacolo Relais, prodotto e realizzato dall’associazione culturale AiEP.
Punto di forza della poetica del gruppo è l’utilizzo delle nuove tecnologie nella danza contemporanea, frutto delle sperimentazioni nella loro sede a Milano, ovvero il DiDstudio – Danza Interattiva Digitale. Nel percorso artistico di AiEP si vanno a fondere l’esperienza della coreografa e danzatrice Ariella Vidach e del videoartista Claudio Prati. AiEP ha quindi sempre dato grande importanza all’immagine nei suoi spettacoli; in Relais, però, le nuove tecnologie sono meno presenti e non si focalizzano solo verso la percezione visiva, ma pongono grande attenzione sull’espressione sonora.
La scena diventa lo spazio dei rumori del corpo con gli oggetti: un busto di bottiglie di plastica amplificato correttamente diventa, indossato da una danzatrice, uno strumento musicale che inscrive la sua partitura sulla musica di sottofondo; un foglio di carta diventa protagonista a spese del performer, così come un foglio di plexiglass con sopra attaccato un microfono inventa un nuovo vento, fatto di sospiri, aria, e colpi a terra. I microfoni, volgarmente definiti a “gelato”, diventano pennelli che scrivono il suono sui corpi dei danzatori, esplorando poi lo spazio scenico e gli oggetti presenti in scena.
Lo schermo, sollevato a quasi un metro da terra, funge sia da sfondo sia da oggetto scenico, ed è posizionato in maniera da lasciare agire gli attori sia anteriormente che posteriormente a esso. Intravedere solo le gambe degli attori innesca nello spettatore una maggiore attenzione nei confronti dei suoni, i quali nascono dall’interazione della parte superiore del corpo dei performer con i microfoni e gli altri oggetti prima citati. Inoltre lo schermo taglia la figura umana e ne scompone le membra, riproponendole così in un certo modo inquadrate, quasi si avesse a che fare con un obiettivo fotografico.
I performer in scena si esprimono solo con sospiri, fiatoni, suoni gutturali soffocati o farfugliamenti confusi e incomprensibili. Privati della possibilità di parlare, gli attori cercano di far parlare le membra e gli oggetti che li circondano, fino al colpo di scena finale, quando la voce umana entra in scena, irrompendo da una radio. L’effetto è sicuramente straniante, eppure porta alla luce come le parole prodotte dall’apparecchio radiofonico procedano solo a senso unico e non instaurino un vero dialogo con chi è in scena, come quello che si era creato precedentemente tra i corpi e gli altri oggetti; la voce radiofonica non viene influenzata dal movimento del corpo del performer , tanto che quest’ultimo rimane chiuso in se stesso.
Non manca nemmeno la cura per la metaimmagine, con la proiezione sulla scena di video degli stessi attori, proposti tramite videocamere azionate dai performer. Le luci sono studiate in maniera precisa e le ombre degli attori sullo schermo sono suggestive.
La precisione del movimento corporeo a volte lasciava un po’ a desiderare, in compenso invece l’orecchio viene piacevolmente stimolato; la radio alla fine è una doccia fredda, ma la si può considerare un momento di rottura importante e che ha un suo specifico significato nell’economia dello spettacolo. Una proposta gradevole e interessante, sicuramente da migliorare in alcune sequenze di movimento imprecise.
Scritto da Anna Silvestrini.
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