Solo Dio perdona: la recensione
Solo Dio perdona: e come era prevedibile gran parte del pubblico e della critica non ha perdonato a Nicolas Winding Refn questo suo ultimo lavoro, in concorso a Cannes 66. Fin troppo facile capirne i motivi: Only God Forgives, pur inserendosi in perfetta continuità per estetica e tematiche nell’Opera di Refn, segna uno scarto significativo rispetto al percorso conclusosi con Drive. Una riflessione sull’ego (dell’individuo e quindi dell’artista) e sull’etica della violenza che attraverso un’ideale trilogia della trasformazione approdava alla definitiva maturazione di “a real human being and a real hero”, libero dall’egocentrismo solipsistico e dall’ossessione per la visibilità di Bronson, cosciente di essere né animale in gabbia né semidio ma semplicemente uomo, come One Eye in Valhalla Rising, pronto al sacrificio muto (la maschera indossata dal driver prima della vendetta sancisce la fine di ogni autocelebrazione) per l’altro, per quel poco di purezza che resta da preservare. Arrivati a questo apice fiabesco e linearissimo di violenza “giusta” e catartica, il passaggio a un universo incerto e ad un protagonista ambiguo come Julian pare una brusca inversione, una regressione; il passo falso di un autore inciampato, infine, nell’inutile estetizzazione di un contenuto debole e pretestuoso. Ma, innanzitutto, Julian non è il solo protagonista, e forse questo elemento – abituati alla parabola del singolo degli altri film di Refn – rimane il più difficilmente assimilabile in un primo momento. Ma veniamo alla trama.
Julian gestisce una palestra di thai boxe a Bangkok, copertura di un ben più redditizio traffico di droga. Quando il fratello Billy viene ucciso per l’omicidio di una prostituta minorenne, la madre gli comanda di vendicare la sua morte eliminando ogni persona coinvolta nel regolamento di conti. Peccato che tra questi ci sia anche il poliziotto in pensione Chang, determinato, a sua volta, a punire chiunque si sia macchiato di una colpa, secondo una spietata legge del taglione.
La struttura portante resta quindi quella classica del cinema di Refn, per quanto riguarda i temi – i traffici di droga, l’etica della violenza, la necessità della vendetta e dell’assunzione di responsabilità – e lo stile – la rielaborazione delle sottoculture cinefile di serie B, l’eleganza della fotografia, l’alternanza di toni caldi e freddi – ma il punto di vista risulta sdoppiato o, meglio, tripartito. Perché Solo Dio Perdona lascia il terreno degli heroes e torna all’umano, troppo umano, abbracciandone e rappresentandone ogni componente: un Super Io inflessibile incarnato da Chang, un Es ferino, fatto di sola pulsionalità perversa incarnato da Billy e un Io immobile, paralizzato, impotente.
Julian si caratterizza così come eroe tragico moderno, incapace di scegliere e autodeterminarsi, figlio indesiderato in fuga dall’America dopo un parricidio compiuto per morboso attaccamento alla mater terribilis Crystal (una Kristin Scott Thomas perfettamente in parte), mai del tutto buono o cattivo, sospeso in quella zona grigia d’esistenza che è dei pavidi e dei pusillanimi. Una dimensione psicologica che diventa immagine, nelle evidenti simbologie di cui il film è cosparso, come le mani che si chiudono a pugno o che si sporcano sotto il getto dell’acqua, rappresentazione plastica di un peccato che non si lava con un’indolore medietà o come il soffermarsi insistente – e finanche eccessivo – sulla sua impotenza sessuale, sul senso di colpa (lo sguardo sardonico della madre, i lacci che legano i polsi) come freno all’agito. Atmosfere che ricordano Fear X, lo sfortunato – e sottovalutato – primo film americano di Refn, per l’ambivalenza degli spazi, tra il reale e l’allucinatorio, sfuggente e ansiogeno orizzonte di corridoi e stanze dalla topografia incerta. Allo stesso modo la recitazione laconica di Ryan Gosling, i dialoghi ridotti al minimo, l’efficacissima soluzione del “parlato muto”, l’andamento ellittico (da questo punto di vista i primi 20 minuti del film sono un capolavoro di visionaria reticenza), l’uso dei carrelli in avanti, alcuni lentissimi, ai limiti dell’immobilità, contribuiscono all’immersione nella dimensione ieratica della tragedia umana, in cui piano cronologico e dilatazione psicologica convivono e si confondono.
Coerentemente con l’idea di violenza maturata da Refn, Billy è il primo elemento a sparire fisicamente dalla scena, pur rimanendo riferimento ideale, per Julian, di una forza pulsionale impossibile da eguagliare (quel “cazzo più grande” che la madre si premura di sottolineare, a tavola). Una figura appena abbozzata ma esemplare, che supera in brutalità anche i più meschini personaggi di Refn; questo perché non rappresentante di una violenza vigliacca (come quella di Leo in Bleeder, ad esempio) o indifferente (come molti personaggi della trilogia di Pusher) ma incarnazione della violenza assoluta, fine a se stessa, compiaciuta, non indiscriminata ma diretta in particolar modo nei confronti di chi è più debole e innocente (“hai una figlia? portamela” dice al proprietario del locale in cui cerca carne da macello). E l’innocenza, l’innocenza dell’infanzia è qui, come negli altri lavori del regista, snodo centrale nel percorso di trasformazione del protagonista. Così come è centrale nel giudizio dell’inflessibile Chang (l’istrionico Vithaya Pansringarm), che punisce il padre della prostituta uccisa da Billy tagliandogli la mano (dopo aver lasciato che si vendicasse sul ragazzo) per aver costretto a una tale vita una ragazzina di 16 anni, e che risparmia uno dei due killer mandati da Crystal per ucciderlo (o, almeno, è significativo che la sua eventuale esecuzione non sia mostrata) nel momento in cui chiede che non venga fatto del male al figlio disabile.
Per Julian la definitiva presa di coscienza si compie non nello scontro con Chang – la bellissima sequenza del combattimento nella palestra – ma di fronte allo sguardo della figlia dell’ex poliziotto, la vittima predestinata che si rifiuta di uccidere. Ma questo non basta: solo il sacrificio permette di salvarsi, il castigo di quelle braccia allo stesso tempo colpevoli e impotenti che poco prima hanno cercato nella madre una maldestra riconciliazione. Perché anche il cambiamento e la liberazione dell’anima, come l’arte, sono il risultato di un atto di violenza.
Scritto da Barbara Nazzari.
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